Leggende di Napoli

Lo sapevi che Ladislao di Durazzo fu ucciso dal veleno messo sulle labbra intime di una donna?

Il re che mirò all’unità d’Italia, Ladislao di Durazzo e San Giovanni a Carbonara

Con il destino degli ultimi Angioini nel sangue, Ladislao di Durazzo fu incoronato re a soli dieci anni e poi spirò giovanissimo: il sovrano immaturo morì di morte prematura a causa di un subdolo avvelenamento, l’ultimo, che gli costò la pelle.

Il veleno, infatti, lo inseguì per tutta la sua breve vita. A Capua, nel 1396, era scampato per miracolo alla morte: il suo coppiere che aveva bevuto prima di lui, Cola di Fusco, cedette di schianto e Ladislao sopravvisse alle febbri venefiche, ma si portò per il resto dei suoi giorni una leggera balbuzie e da quel momento non si fidò più di nessuno.

VELENO INTIMO

La sua fine fu segnata da un inganno: il re Ladislao, invaghito della bella figlia di un medico fiorentino della schiera nemica dei Durazzo, chiese al padre di farla coricare con lui; il medico acconsentì, ma intinse di veleno – con un «pannicello medicato con lo quale se devesse anectare la natura» (Notar Giacomo, Cronica di Napoli, 1845) – le labbra intime della ragazza, l’unica “cosa” che il sovrano non avrebbe mai fatto assaporare prima ad alcuno dei suoi, e fu così che Ladislao capitolò alla trappola baciando il sesso dell’amante.

Ladislao d’Angiò, re di Napoli e d’Ungheria, sognò di unire l’Italia sotto lo scettro dei Durazzo, e con piglio imperiale ampliò di molto i confini del regno partenopeo, conquistò anche Roma e i territori pontifici, e perciò secoli più tardi divenne l’emblema dei neoghibellini che si ispirarono a lui contro i guelfi e la Chiesa.

VOLEVA UNIFICARE L’ITALIA

Il suo motto, aut Caesar aut nihil, “o Cesare o niente”, la dice lunga sulle sue mire di conquista, come quelle di un antico condottiero romano, e sul grandioso monumento funerario che la regina Giovanna II gli dedicò al cosiddetto “Pantheon degli Angioini” – la chiesa di San Giovanni a Carbonara, già ricca di simboli dell’ermetismo.

Un’iscrizione attribuita all’umanista Lorenzo Valla lo dipinge come Lux Italum, “luce degli Italici”. L’imponente sepolcro di Ladislao d’Angiò, alto diciotto metri, quanto la navata, celebra un culto eroico e segna una via ermetica in quattro tappe fondamentali:

le quattro cariatidi che anticiparono la rinascita ufficiale del neoplatonismo, la Magnanimità, la Prudenza, la Forza e la Temperanza; il re e la regina in trono, simbolo dell’equilibrio tra polarità maschile e femminile; il cenotafio che rappresenta Ladislao sul letto di morte, la quale è necessaria all’ascesa e si risolve in cima al monumento; all’ultimo livello il sovrano, pur essendo defunto, scomunicato e privo di sepoltura ecclesiastica, è glorificato e rappresentato in un’insolita posa senza segni di croci: in groppa al suo destriero vestito di una bardatura bellica, mostra orgogliosamente lo stocco reale sguainato e in posizione di attacco. Sotto la statua equestre che pare carezzi il cielo c’è un cartiglio: Divus Ladislaus, “Ladislao il divino”.

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fonte: A.Palumbo-Ponticello-Luoghi napoletani