Il tridente più forte della storia del calcio. Ecco i 10 migliori tridenti di tutti i tempi da Maradona a Pelè.
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Quale è stato il tridente più forte nella storia del Calcio? Corre, la memoria, ai ricordi dolci, quasi scolastici, della MA.GI.CA. del Napoli, non vinse scudetti ma divertiva divertendosi.
Il Foggia di Zdenek Zeman, che diventò «Zemanlandia» anche e soprattutto per la storia, e le storie, di quei tre là davanti, Roberto Rambaudi, Ciccio Baiano e Beppe Signori. Altra epoca, d’accordo: ma la polvere degli archivi non è, e non sarà mai, perdita di «tempi».
Uno fra i più leggendari tridente è stato, il Gre-No-Li del Milan, Gunnar Nordahl, il geometrico Nils Liedholm e il sofisticato Gunnar Gren.
Lo stesso discorso vale per Boniperti-Charles-Sivori della Juventus umbertina. Con il distinguo, malizioso, che Giampiero era stato, in gioventù, centravanti purissimo e grandissimo, capace di sfilare lo scettro di capocannoniere a un «certo» Valentino Mazzola. Dagli anni cinquanta ad oggi, come scrive, Roberto Beccantini sul Guerin sportivo, ne è passata di acqua sotto i ponti, ma il tridente è quello che più di tutti stuzzica la fantasia degli appassionati di calcio.
IL TRIDENTE PIÙ FORTE NELLA STORIA DEL CALCIO
Ecco in fila i dieci tridenti più forti della storia del calcio:
10 – RAVANELLI-VIALLI-DEL PIERO
Dal cuore dei tifosi sbucano le sagome tarantolate di Vialli e Ravanelli. Senza trascurare le tele di Pinturicchio che solo il crac di Udine, al ginocchio sinistro, avrebbe rigato. Resta l’impronta: tutti per tre, tre per tutti.
9 – PANDEV-MILITO-ETO’O
Il Triplete, unica società italiana ad averlo realizzato; Mourinho che prima celebra e poi scappa a palazzo Real, un epilogo e una ripartenza. E quell’idea che – in coppa, soprattutto – fece scalpore. Stipato sotto i numeri di un 4-2-3-1 guerriero, emerse un congegno che trasformò Goran Pandev da punta esterna a crocerossina in corsia, e Samuel Eto’o da capocordata a sherpa, lasciando il solo Diego Milito al suo mestiere di cecchino.
8 – SALAH-FIRMINO-MANÉ
A forza di cantare you’ll never walk alone, soli non sono rimasti. Un egiziano, un brasiliano, un senegalese. Sono i giocatori verticali, esaltati dalla dottrina di Jurgen Klopp. Che poi alla quadratura del cerchio, e alla conquista dell’Europa e del Mondo, si sia arrivati attraverso l’ingaggio di un lucchetto batavo (Virgil van Dijk) e di un portiere gaucho (Alisson), questo è il calcio, bellezza. E questo è il Liverpool.
https://www.youtube.com/watch?v=W39IWlHFkgo
7 – BALE-BENZEMA-CRISTIANO
Gareth Bale, Karim Benzema e Cristiano Ronaldo. Il Real del Duemila, il Real delle quattro Champions (tre di fila).
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6 – RONALDINHO-RONALDO-RIVALDO
Il simbolo del Brasile campione del Mondo nel 2002. La fantasia al potere, lo spettacolo era il trio, non la squadra, che ogni tanto ne pagava il prezzo. Tutti e tre palloni d’oro: Ronaldo nel 1997 e nel 2002, Rivaldo nel 1999, Ronaldinho nel 2005 a Barcellona, dove cominciava a frignare un bebé di Rosario che gli avrebbe sottratto la scena. Messi, si chiamava.
5- MESSI-SUAREZ-NEYMAR
A scrivere del Barcellona moderno si rischiano feroci tagli di personale. Fermo restando Leo Messi è il genio della lampada e la lampada stessa; Luis Suarez, un pistolero dagli alluci non meno chirurgici dei canini; Neymar, un paulista che i troppi paragoni (con Pelé, con Messi) hanno condizionato. La loro era, e rimane, una lingua che rari vocabolari traducono: l’esperanto degli eletti che, baciati dal talento e dall’istinto (l’urugagio), parlano «con» il calcio e non semplicemente «di» calcio.
4- SWART-CRUIJFF-KEIZER
Difficile, proprio perché stiamo dissertando di Ajax e «totaalvoetbal», isolare una formula dalla quale ricavare una gerarchia netta. Erano così intercambiabili, i ruoli, da confondere persino i Pigafetta delle tribune.
Johan Cruijff non si discute con Swart e Keizer, erano i Beatles e i Rolling Stones.
3 – DI STEFANO-PUSKAS-GENTO
Alfredo Di Stefano, Ferenc Puskas e Francisco Gento cosa hanno rappresentato nel Real e per il Real? Don Alfredo era il centro di gravità permanente, orchestra e direttore d’orchestra. Puskas aveva un sinistro che invano la pancia cercò di nascondere all’ebbrezza dei testimoni. Gento, lui, aggiunse l’idea di velocità al concetto territoriale di fascia (sinistra). Ne uscì un’ossessione: palla al piede e via col «vento».
2- MARADONA-GIORDANO-CARECA
Nella classifica per il tridente più forte della storia del calcio, la celeberrima Ma.gi. ca del Napoli si piazza al secondo posto. .Ne ha vinti due, di scudetti, Diego. Uno con Bruno Giordano, quando non c’era ancora Careca; e uno con Antonio Careca, quando non c’era più Giordano. Ne persero, se possibile, uno già in tasca, quello del 1988, ghermito in extremis dall’albeggiante Milan di Sacchi. L’argentino dio del calcio, un romano tecnicamente fuori catalogo e un brasiliano che, se fosse stato al Sarrià il 5 luglio 1982, non so mica come sarebbe andata.
Divertivano, divertendosi. Un po’ circo e un po’ neuro, visto come reagivano i clienti, sfidati e sfiniti. Bianchi, orso lombardo, li dosò con cautela, coinvolgendo Carnevale. Erano tridenti asimmetrici, erano ombre: se li inseguivi, ti fuggivano; se li fuggivi, ti inseguivano.
1 – GARRINCHA-VAVÁ-PELÉ
Il tridente più forte della storia del calcio è brasiliano. Dovrebbero bastare i nomi. Mondiali del 1958 in Svezia. La cosa buffa è che nessuno dei tre partì titolare. Vavá spuntò alla seconda, contro l’Inghilterra, in coppia con José Altafini, poi lentamente scalzato. Garrincha e Pelé, che già avevano rischiato di non esserci per tare intellettive, dovettero aspettare la terza, addirittura: 2-0 all’Urss, doppietta di Vavá, un «ariete» abbastanza europeo, non proprio sambista nell’accezione degli svolazzi. Più terra che aria, ecco. Che intesa, però. E che musica.
Scrivere di Mané Garrincha è aprire un cassetto, tirar fuori il diario che si teneva da ragazzi e commuoversi. Le sue finte hanno resistito alla mattanza del dribbling e alla deportazione siberiana del ruolo, l’ala che volò come una farfalla da George Best a Gigi Meroni.
Garrincha scartò il mondo, non la vita.
A differenza di Pelé, la cui arte ha toccato picchi di dittatura quasi scientifica all’interno di magie che solo gli alieni sprigionano. Non aveva ancora 18 anni. Praticava, quel Brasile, un 4-2-4 che Vicente Feola aveva mutuato dagli studi di Bela Guttmann, e che Zagalo, esterno di vivido acume, proteggeva dagli eccessi di «onanismo estetico», arretrando, non appena scattava l’allarme, nella linea dei centrocampisti. Seppe resistere a tutto, Zagalo: comprese le tentazioni del suo popolo.
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