I magnifici retroscena di Miseria e Nobiltà svelati da Peppeniello. Franco Melidoni racconta cosa accadde dietro le quinte uno dei film Cult della cinematografia italiana.
Di:Mirella Armiero corrmez
Franco Melidoni, alias Peppiniello, è un bel signore prestante di settant’anni. Vive a Napoli, al Vomero, fa sport, gira in motorino e ha molti interessi, ma nel suo cuore sono rimasti il cinema e il teatro. Di sicuro ricorda ancora a menadito le sue battute di «Miseria e nobiltà», dove recitava come Peppiniello. «Vincenzo m’è pate a me!» era il tormentone ante litteram del piccolo protagonista che calcò il set al fianco di Totò ai tempi della suo massimo genio artistico. Melidoni dopo quella straordinaria esperienza ha cambiato strada, è diventato ingegnere, ha lavorato in Alitalia e ha vissuto addirittura in Angola.
Ma torniamo al 1954: come accadde che venisse scritturato per il film tratto dalla commedia di Scarpetta?
«In realtà», racconta l’ingegnere, seduto ad un caffè di via Scarlatti, «la mia famiglia era nel settore. Erano tempi in cui i teatranti non se la passavano molto bene. Mio nonno Alfredo Melidoni era amico di Scarpetta e da lui fu autorizzato a mettere in scena tutte le sue commedie. Mio nonno lo faceva in molti teatri d’Italia. Mia zia Giulia Melidoni era l’attrice che interpreta Bettina in «Miseria e nobiltà» ma aveva lavorato anche con Viviani.
Un giorno arrivò l’aiuto regista di Mario Mattoli e disse a mia madre che a Roma in gennaio ci sarebbero stati dei provini per bambini». Quanti anni aveva? «Sette e mezzo. Decidemmo di provare. Ricordo un altro lungo viaggio in terza classe e l’arrivo esausto agli stabilimenti Ponti – De Laurentis».
C’era Totò a provinare?
«C’erano Totò e Mattoli. Chiamavano i bambini, li facevano parlare, magari recitare una poesia. Poi andarono via e restammo soli mia mamma ed io, ad aspettare, ma i due non tornarono. Venne invece un signore della produzione e ci disse che ero stato scelto». Così, senza nemmeno parlare? «Sì. Credo che piacque il mio aspetto emaciato, visto che venivo da un viaggio in treno così stancante e morivo di sonno. Stavo lì, stanco, con i calzoncini corti, in un angolo».
Le riprese incominciarono a gennaio e per non perdere l’anno scolastico la produzione concesse a Melidoni che una volta a settimana una loro automobile si recasse a Napoli, all’Istituto Froebeliano, per ritirare i compiti assegnati al bambino e per consegnare quelli da correggere.
Com’era l’atmosfera sul set?
«Per me era come stare a casa. Molti degli attori, come Dolores Palumbo, erano amici di famiglia. E Totò era come un nonno. Anche se aveva 56 anni, ne dimostrava qualcuno in più, aveva già problemi agli occhi. I ciak per le luci li faceva sempre una controfigura. Sul set arrivava quasi in punta di piedi, già truccato e preparato da casa. E poi diventava un fuoco di artificio, quello che si dice sulla sua capacità di improvvisazione è assolutamente vero .L’abilità della spalla doveva essere quella di seguirlo nei suoi voli funambolici. Ed era sempre buona la prima, poi si girava una seconda scena per sicurezza ma non serviva quasi mai».
La cosa più curiosa che vuole raccontarci
«Mi ricordo tutto come se fosse ieri. Soprattutto lo schiaffo che mi diede la Palumbo…». Schiaffo? «Sì, perché nella scena in cui dico che me ne vado dal mio compare perché nessuno mi vuole bene, non riuscivo a piangere… Mi misero anche delle gocce negli occhi ma niente. Così lei disse: ci penso io e mi mollò un ceffone. Che funzionò».
E la famosa battuta «Vincenzo m’è pate a me»?
«Fu Franco Sportelli, il maggiordomo, a suggerire di insistere su quella frase, ed ebbe ragione. Ma è pur vero che la commedia di Scarpetta è tutta scritta, esiste».
E come andò la celebre scena del pranzo, quando Totò salta sul tavolo?
«Fu bellissima, coinvolgente. Ma andava per le lunghe e la pasta si fece fredda e scotta. Allora Totò cosa si inventò? Mise sotto la pasta sigarette che producevano il fumo. Poi salì sul tavolo e si sporcò tutto il vestito, facendo infuriare la costumista. E consegnando una scheggia di capolavoro alla storia del cinema».
Totò era davvero una persona chiusa e ombrosa fuori dal set?
«Sì, è così. Lui amava dire che a casa sua abitavano insieme il principe de Curtis e Totò e che il principe viveva alle spalle dell’altro. In pratica erano due persone in una. Comunque era molto generoso, spendeva molti soldi per il suo quartiere, la Sanità. E per un canile di Roma.
Poi aveva un conto aperto in un ristorante dove invitava chi non poteva permettersi di pagare. A casa sua ai Parioli riceveva poveri di ogni tipo, tanto da suscitare le proteste dei condomini. Così invece di incontrarli a casa, lo faceva sul marciapiede davanti casa».
Dopo quel film ha smesso?
«Due mesi dopo «Miseria e nobiltà», De Sica cercava un bambino per l’«Oro di Napoli»: «Mi avrebbe preso, ma mia madre si oppose. Disse: mio figlio deve studiare, quella dell’artista è una vita di sacrifici».