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Goethe rimase colpito da una strana usanza napoletana: Il presepe

Goethe  rimase colpito da una strana usanza napoletana: Il presepe. Un tocco d’inarrivabile bellezza all’insieme è dato dallo sfondo che raffigura il Vesuvio con i paesi circostanti.

Di: Luciano De Crescenzo

Goethe  rimase colpito da una strana usanza napoletana: Il presepe.

Quando raccontò del suo famoso viaggio in Italia, lo scrittore tedesco riferì di essere rimasto colpito da questa strana usanza napoletana: riprodurre nel presepe la scena della Natività e darle come contorno il paesaggio cittadino.

Alcuni anni fa, a Napoli, e per la precisione a San Gregorio Armeno, un signore dal chiaro accento settentrionale si avvicinò alla bottega di mast’Andrea. Mast’Andrea è uno dei più stimati presepisti della zona.

“Brav’uomo, io vorrei acquistare un presepe.”

“Lo volete comprare o lo volete ordinare?”

“Ne vorrei comprare uno che non costi troppo, ne avete qualcuno già confezionato da farmi vedere?”

“Per quelli confezionati, signore mio, dovete andare alla Upim. Qui li facciamo solo su misura. E poi, senza che perdiamo tempo: vuje già ’o tenite ’o scoglio?”

“Lo scoglio? E che cos’è lo scoglio?”

“Quello è il punto di partenza. ’O scoglio è la base rocciosa del presepe.”

“Giovanotto, forse non mi sono spiegato, ma io vorrei comprare un presepe napoletano, un presepe normale.”

“Sì, questo l’ho capito, ma un presepe normale non esiste. ’A ’rotta comm’ ’a vulite?”

“La rotta?”

“Sì, la grotta. ’A vulite cu ’e moschelle o senza ’e moschelle?”

“Le moschelle? Che cosa sono?”

“Sono i pastori più piccoli, quelli che devono sembrare lontani.”

“Oddio, ma è veramente tutto così complicato? Forse è meglio che a questi dettagli ci pensi lei che è un esperto.”

“Dottó, non ve ne incaricate, questo sarà un pensiero mio. Io però ci metto dentro anche ’o cacciatore c’ ’o fucile, ’a tavulella cu’ ’e ddoje coppie assettate, ’o mellunaro, ’o verdummaro, ’o chianchiere, ’o baccalaiuolo, quacche piennolo…”

“Si fermi, brav’uomo! Occorre veramente tutta questa roba, perbacco?”

“E vabbè, ci metto pure a Cicci Bacco.”

“Ma il tutto quanto mi verrà a costare?”

“Voi di questo non vi dovete preoccupare. Io vi faccio il presepe più bello che avete mai visto. Vuje pensate a’ salute.”

La praticità di mast’Andrea e la raffinatezza descrittiva di Goethe, messe insieme, ci raccontano il mondo del presepe napoletano.

 Presepe: da quello popolare a quello settecentesco.

Il presepe come lo intendiamo oggi ha un’origine molto remota. Ma da qualunque parte la guardiamo, si tratta di un’origine napoletana. Pensate, bisogna andare indietro fino al lontanissimo 1025, cioè un millennio fa, per trovare la prima testimonianza scritta dell’esistenza di un presepe vero e proprio. A Napoli, naturalmente, in una chiesa che doveva chiamarsi per forza Santa Maria del Presepe. Mi dicono, infatti, che tempo fa è stato recuperato un documento che contiene la descrizione di questa prima rappresentazione della Natività.

E non basta, la napoletanità del presepe è una questione anche linguistica. Le parole latine di cui vi ho detto, cioè prae e saepes, da cui discende il vocabolo attuale, furono italianizzate proprio a Napoli. Il suono presepe piacque subito all’Italia intera, così la parola fu approvata e si diffuse dappertutto.

Più tardi, nel XIII secolo, successe un fatto curioso. Sul trono del Regno di Napoli c’era la famiglia d’Angiò, più noti come Angioini. Erano venuti dalla Francia e si erano impadroniti dei territori dell’Italia meridionale quando, guidati dal conte Carlo d’Angiò, sconfissero gli Svevi che erano nemici acerrimi del papato, e li cacciarono dalla Sicilia e dall’intero Sud. Ora, dovete sapere che i d’Angiò avevano tra i loro domini anche il trono d’Ungheria e, quando un ramo della famiglia si trasferì, portò lì con sé alcuni presepi napoletani.

Dopodiché, quando li mostrarono ai dignitari ungheresi, questi chiesero come si chiamavano tali meraviglie che non avevano mai visto prima. Volevano sapere, infatti, quale fosse il loro nome e la loro origine. “Le fanno a Napoli” fu la risposta “e laggiù le chiamano presepi.” Non vi so dire perché, ma pare che da allora gli ungheresi abbiano deciso di non tradurre quella parola nella loro lingua. Ed è questo il motivo per il quale, se voi dite “presepe”, a Budapest vi capiscono tutti.

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