Misteri e mestieri di Napoli: ’o sosciapasta, ’a munnezzaglia, i saponari. Tanti mestieri tutti nati dall’ingegno napoletano. Raccontanti da Luciano De Crescenzo.
Di: Luciano De crescenzo
Misteri e mestieri di Napoli
Misteri e mestieri di Napoli racontati da Luciano De crescenzo. il filosofo della napoletanità ci accompagna con un dialogo nel ventre della mente napoletana. Un condensato di napoletanità applicata.
’o sosciapasta, ’a munnezzaglia li conoscete?
«Dotto’, voi siete uno scrittore e quindi io non mi permetterei mai di darvi dei consigli, però vedete che vi dico: se scrivete la storia della mia vita, è come se scriveste la storia di Napoli.»
«Avete cominciato presto a lavorare?»
«A otto anni, facevo ’o sosciapasta.»
«Che cosa facevate?»
«’O sosciapasta, dotto’, il soffiapasta. Papà per levarmi da mezzo alla strada mi mise da un salumiere amico suo. Io ogni giorno dovevo raccogliere ’a munnezzaglia che si faceva. La munnezzaglia sarebbero tutti quegli spezzoni di pasta che avanzano e che si trovano sopra al bancone oppure per terra.
Sapete, quella pasta mista: spaghetti, tubetti, maltagliati… che quando ve la mangiate insieme ai fagioli o alle patate diventa una cosa veramente squisita! Dunque, vi stavo dicendo, quello era il mio lavoro: io raccoglievo ’a munnezzaglia, la mettevo in un setaccio per separarla dalla monnezza vera e propria, e poi alla fine ci soffiavo sopra che così se ne andava via pure la polvere. Perciò mi chiamavano ’o sosciapasta.»
«E quanto vi dava il salumiere?»
«Mi dava un panino con la mortadella a mezzogiorno e un piatto caldo la sera.»
«E poi che avete fatto?»
«È ’na parola, dotto’: che cosa ho fatto? Ho fatto tutti i mestieri che esistono. E non mi vergogno a dirlo, ma sono stato pure in galera.»
«Volete dirmene anche il motivo? Se non me lo volete dire, però, non me lo dite.»
«E perché non ve lo dovrei dire: quella è la mia vita! Dunque, la prima volta che andai dentro fu pe ’nu scippo; tenevo quindici anni. Le altre volte è stato per furto d’auto. Lavoravo per conto di uno sfasciacarrozze. La sera andavo da lui e prendevo le ordinazioni. Per esempio, quello mi diceva: mi servono due autoradio così e così, oppure una coppia di fanalini di Millecento e una ruota di scorta per una Minicupér. Eravamo più di una dozzina a lavorare per lui.»
«Poi che successe?»
«Successe che andammo in galera solo noi. Sennonché, tra un’entrata e l’altra, a Poggioreale io ebbi una figlia dalla mia signora e quindi mi dovetti sposare. A questo punto sentii come si dice… la responsabilità della famiglia e allora decisi di togliermi dalla vita malamente e mi misi dentro alle sigarette. Ho fatto il contrabbandiere per dieci anni e forse pure di più. Adesso tengo il certificato di buona condotta e se Dio vuole…»
I saponari
«Quanti figli tenete?»
«Cinque, dotto’: tre maschi e due femmine. ’A cchiù peccerella tene sei mise.»
«E adesso che fate?»
«Adesso sto bene: tengo un commercio avviato di abiti usati e insieme a mia moglie ho messo pure un reparto di rianimazione.»
«Come sarebbe a dire “di rianimazione”?»
«Ve lo spiego subito: noi compriamo i vestiti usati all’ingrosso. O direttamente dai saponari, o in balle provenienti dall’America. Ora voi dovete sapere che quando comprate le balle, le cose vi possono andare bene e vi possono andare male.
Eh già, perché nella balla non è che ci potete guardare. Ve la dovete comprare così com’è. Si paga a peso e si compra al buio. Certe volte trovate tali schifezze che le dovete buttare tali e quali a come le avete prese. Certe volte invece trovate il capo che merita ed è su queste combinazioni che ci esce il guadagno.»
«Questi sarebbero i capi che voi rianimate?»
«Sissignore: noi abbiamo il reparto sartoria, lavanderia e stireria. Poi c’è il reparto rianimazione che è quello che ci dà più soddisfazioni.»
«Di che si tratta?»
«Adesso ve lo spiego: come vi dicevo, certe volte arrivano dei capi che sono ancora buoni, solo che ci hanno qualche strappo, qualche bruciatura di sigaretta, oppure sono semplicemente tarlati. Ebbene questi capi qua noi con un po’ di pazienza li facciamo tornare come se fossero nuovi.»
«Come fate? Ci mettete delle pezze?»
«Non proprio. Supponiamo per esempio che il capo sia un cappotto: come prima cosa lo appendiamo insieme a tutti gli altri cappotti in una stanza perfettamente chiusa dove per terra, sul pavimento, abbiamo messo tante bacinelle piene di acqua bollente, di modo che il vapore dell’acqua salendo fa rialzare il pelo.»
«Veramente?»
«E sì perché il pelo quando si sente quel calorino addosso è come se si consolasse, come se dicesse: “Ma che sta succedenno? Ma che d’ ’è ’stu calore?”. Poi, sempre con calma, Patrizia, la mia primogenita, con una lametta gratta l’interno delle pieghe e riesce a ottenere una polverina di pelo di cappotto.
Benissimo: arrivati a questo punto, mia moglie prende la polverina, la unisce a un poco di colla trasparente e forma una specie di pasta con cui appila (ottura) piano piano tutti i buchi del cappotto. I capi miei, dotto’, quando escono dal reparto rianimazione è come se uscissero dalla Rinascente!»
«E guadagnate bene?»
«Ringraziando Iddio, non mi posso lamentare.»
«Quindi diciamo che siete abbastanza contento.»
«Francamente, dotto’… non so che cosa rispondervi. Io mi sento come se mi mancasse qualcosa d’importante. Forse sarà perché penso sempre al futuro dei figli miei.
Vedete, dotto’: io mo’ tengo una bella macchina, una bella caserella ai Ponti Rossi, in affitto s’intende, però che vi debbo dire? Sento sempre che ci sta qualcosa che mi manca.
Secondo me, mi manca il diritto di fare sciopero. Di manifestare in difesa della mia famiglia. Non so se mi sono spiegato.»