Palazzi napoletani

Sancarluccio il teatro che ha scoperto Troisi e lanciato Benigni

Al Sancarluccio c’è un certo Troisi

Una sala di poche decine di metri quadrati in cui sono stipate esattamente 126 sedie di paglia. Un centoventisettesimo spettatore, in quel teatro, non riuscirebbe a trovar posto. Eppure è stato proprio al “Sancarluccio” che hanno esordito e hanno mietuto i loro primi successi attrici e attori diventati poi celebri non solo a Napoli ma in ogni parte d’Italia. Un nome per tutti: Massimo Troisi.

Entrò al “Sancarluccio”, Massimo, quando era nient’altro che un ragazzotto di San Giorgio a Cremano col pallino della recitazione; ne uscì in capo a quindici giorni che era già quasi un divo. Non dissimili dal caso di Massimo Troisi (sebbene in diverse proporzioni e in altri contesti) quello di Ida Di Benedetto e di Marisa Laurito che qui fecero le loro iniziali prove artistiche. Inoltre il “Sancarluccio” diede fiducia a un toscanaccio senza ancora gloria. Sì, Roberto Benigni, proprio lui.

Tutte e 126 le sedie di paglia del “Sancarluccio”, così come il minuscolo foyer, la microscopica sala e il giocattolesco palcoscenico, evocano soprattutto, però, gli incredibili esordi di Massimo Troisi. I primi a rendersene conto, e ad esserne orgogliosi, sono gli attori Franco Nico e Pina Cipriani, marito e moglie, che nel 1972 fondarono questo teatro dal nome irriverente, il “Sancarluccio”, appunto. Irriverente sia nei confronti del tempio lirico della città, il “San Carlo”, che nei riguardi di quello che nell’Ottocento era stato il regno di Pulcinella, il “Sancarlino”.

Il “Sancarluccio”, venne creato in onore, o quasi, di un’ex monaca di clausura smonacatasi per amore. Pina Cipriani, ragazza di San Cipriano di Aversa, aveva appena dodici anni quando, affascinata dal fervore religioso di una zia, andò a raggiungere costei nel convento delle benedettine di Aversa, decisa a rimanervi per tutto il resto dei suoi giorni. E in realtà fra le mura dell’austero edificio trascorse, nel raccoglimento e nella preghiera cinque lunghissimi anni. Fu quando ebbe compiuto i diciassette anni, che nell’animo della novizia avvenne quel sommovimento che doveva mutare il suo futuro.

Nel momento di rinchiudersi nel convento, bisogna premettere, Pina, insieme con il corredo personale, aveva portato con sé il ritaglio di una rivista su cui era stampata la foto di un giovanissimo cantante di Casal di Principe: Franco Mastrominico in arte Franco Nico. Conquistata, giorno dopo giorno da quella immagine, Pina, dunque, abbandonò il cenobio, tornò in famiglia e, visto che disponeva di una originalissima voce, si mise anche lei a cantare, quasi fosse rinata a nuova vita. Studiò musica col maestro Campanino ed entrò a vele spiegate nel mondo del pentagramma partenopeo. Le nozze con Franco Nico avvennero di lì a poco. E portarono fortuna a entrambi, perché incominciarono ad arrivare, sia per lui che per lei, gli inviti ai festival e i contratti delle case discografiche.

Siamo agli inizi degli anni Settanta del Novecento e a Napoli, come in tutta Italia, stava venendo di moda il dissacratorio e schioppettante teatro-cabaret. Gli instancabili Franco e Pina, affiancati da Lucia Cassini, brava attrice comica, e da alcuni altri giovani, danno vita a un gruppo denominato “I cabarinieri”. Con testi scritti da Angelo Fusco e Renato Ribaud, i “Cabarinieri” vanno a dare i loro spettacoli in questo e in quest’altro locale. I pianterreni e i sottoscala trasformabili in teatri di avanguardia, a Napoli non mancano.

E si arriva così al primo novembre 1972, festa di tutti i santi. Franco Nico prende per mano la moglie e la conduce in via San Pasquale a Chiaia, traversa della elegantissima via dei Mille. Proprio accanto alla scalinata che mena a via del Parco Margherita, c’è la bottega artigiana di un ebanista. È in atto un trasloco e si nota un viavai di facchini. «Pina, ti piace?», butta là Franco Nico. «Questo, da domani, sarà il tuo teatro. Ho già firmato il contratto di affitto. Vorrei chiamarlo “Sancarluccio”. Che ne dici?». Pensando agli impegni finanziari contratti dal marito, la mancata badessa si fece il segno della croce.

 

Lo spettacolo inaugurale, 15 dicembre 1972, s’intitolava C’era una… Erano occorsi radicali lavori per trasformare l’ex falegnameria in un teatro, e la collaborazione dello scenografo Bruno Garofalo aveva avuto un peso determinante. Non erano scarseggiati i contrattempi, naturalmente: l’attrice comica Lucia Cassini si trovava in stato di avanzata gravidanza e bisognò trovare un’altra ragazza che la sostituisse. La scelta cadde su una paffuta studentessa di viale Elena che moriva dalla voglia di recitare.

Andare al “Sancarluccio” divenne un’usanza, più che una moda, per un certo tipo di pubblico, anche per il fatto che, spesso, vi venivano ospitati anche spettacoli di prosa: nel giugno del 1974, ad esempio, una compagnia diretta da Mico Galdieri vi diede Una domanda di matrimonio di Čechov, interpretato dalla futura impegnatissima Ida Di Benedetto. La stessa fu protagonista, nel dicembre del 1975, insieme con Tato Russo, di Il sole, una pièce di Luigi Compagnone.

Già allora, bisogna dire, il fascino che il minuscolo teatro di via San Pasquale a Chiaia esercitava (merito anche della verve di Pina Cipriani) su giovani e non giovani, era notevole. Una ragazza della buona società napoletana, figlia del proprietario di una catena di grandi cartolerie, non essendo riuscita, per completezza di organico, ad essere scritturata come attrice, si accontentò, per un certo periodo, pur di respirare aria di palcoscenico, di fare la guardarobiera laggiù al “Sancarluccio”. Il nome di quella ragazza? Marina Confalone. Ed è tutto dire.

Poi un giorno, siamo nella primavera del 1977, Franco Nico riceve una telefonata di Lucia Cassini. «Senti, Franco, ho conosciuto un ragazzo di San Giorgio a Cremano che mi sembra proprio bravo. Ha una comicità stranissima, ascoltandola ti trovi a ridere senza capirne il perché. Ha anche formato un trio, con due suoi amici, si fanno chiamare “I saraceni”. Finora questo ragazzo ha recitato prevalentemente a San Giorgio a Cremano, in un ex garage. Ci terrebbe tanto a lavorare a Napoli. Che dici, lo vogliamo ospitare al “San Carluccio”? Può darsi che faccia successo».

Franco Nico rimase un attimo perplesso. Di telefonate simili ne riceveva parecchie, ma riceverne una da una professionista come Lucia Cassini era diverso. «Lucia», disse, «dal 21 aprile in poi dovremmo avere un vuoto di due settimane, mi è parzialmente venuto meno Leopoldo Mastelloni, il quale passerà dal “Sancarluccio” al “Teatro tenda”. Va be’. Lucia, di’ al tuo amico di venirmi a trovare; poi si vedrà. A proposito, come hai detto che si chiama?». «Troisi, Massimo Troisi». «Troise?». «I, i, Troisi, con la i finale».

 

All’epoca in cui si rivolse a Lucia Cassini per essere introdotto al “Sancarluccio”, Massimo Troisi aveva ventiquattro anni ed era da pochi mesi tornato da Huston, negli Stati Uniti, dove il professor De Bakey, allora al culmine della celebrità, l’aveva operato a cuore aperto per applicargli una valvola al titanio. Massimo si sentiva in gran forma: era scattante, sereno, ottimista. Gli veniva, quel senso di fiducia nella vita, dal comportamento, affettuoso e solidale, che avevano dimostrato nei suoi confronti gli abitanti di San Giorgio a Cremano, piccolo comune alle falde del Vesuvio, aiutandolo concretamente affinché potesse intraprendere lo speranzoso viaggio ad Huston. Adesso dunque, adesso che si sentiva guarito da quella malattia che l’aveva colpito quando era ancora dodicenne, Massimo puntava a diventare un attore. Anzi, un grande attore; e non ne faceva mistero. Il diploma di geometra se l’era preso, lui quinto di sei figli, soltanto per non deludere suo padre.

L’amore per il teatro risaliva a quando frequentava ancora la scuola media. Doveva recarsi ogni giorno da San Giorgio a Cremano a Torre del Greco, e sulla ferrovia Circumvesuviana gli capitò di incontrarsi con alcuni suoi compagni di classe i quali ingannavano i pochi minuti del tragitto rileggendo il copione di una farsa che avevano in mente di rappresentare nel teatrino della parrocchia. Cooptato in quella formazione, Massimo si trovò a interpretare una pièce in cui si esaltavano le occupazioni di fabbrica da parte degli operai minacciati di licenziamento e in cui si giustificavano le giovani donne che sceglievano di abortire. Scacciati dal prete e dal sacrestano, Massimo Troisi e i suoi amici ripararono in un ex garage di San Giorgio a Cremano; da lì, peraltro, si spostavano in altri piccoli locali della zona vesuviana. Di quel gruppo, denominato «I saraceni», di cui adesso Massimo era il principale attore, facevano parte anche Lello Arena ed Enzo Purcaro (in arte, più tardi, Enzo Decaro). Fu con alle spalle questo curriculum, tutto scritto in provincia, che Massimo Troisi, nell’aprile del 1977, bussò alla porta del “Sancarluccio”, lì, a via San Pasquale a Chiaia, cuore del più sfavillante quartiere di Napoli.

 

«Non lo dico per darmi le arie del talent-scout», mi giura Franco Nico, «ma appena Massimo Troisi venne qui al “Sancarluccio”, sia io che Pina avemmo l’impressione di trovarci di fronte a un genio della comicità. E crebbe maggiormente in noi, questa sensazione, quando Massimo e i suoi due compagni ci ebbero dato un piccolo saggio di ciò che, come “Saraceni”, intendevano rappresentare nel nostro teatro. Ma bastava, tutto ciò, per assicurare il successo a chi ancora apparteneva all’universo degli sconosciuti?»

No che non bastava. E lo stesso Troisi se ne rese talmente conto che la sera del debutto, 21 aprile, si presentò con una banda di suoi compaesani, amici e parenti, i quali andarono ad occupare, a scanso equivoci, un discreto numero delle 126 sedie di paglia. Ma era possibile iniziare uno spettacolo soltanto dinanzi a una claque di sangiorgesi? E a questo punto, infatti, successe un miracolo.

«Accadde dunque», mi racconta Franco Nico, «che in un notissimo night di via dei Mille, “La mela”, un night che si trova a due passi dal nostro “Sancarluccio”, agisse, quella sera, un complessino musicale che, guarda caso, si denominava “I saraceni”, proprio come il gruppo teatrale capeggiato da Troisi. Presa d’assalto da un gruppo di ragazze e ragazzi desiderosi di bere e di ballare, “La mela” ben presto si riempì come un uovo. E a coloro che insistevano per entrare fu detto, forse per spiritosaggine “Andate al ‘Sancarluccio’, anche lì stasera ci sono ‘I saraceni’. Andate, andate”. Imprevedibilmente, il foyer del nostro “Sancarluccio” tutto d’un tratto brulicò di giovanissimi. Afferrai subito la situazione e dissi: “Badate, qui non si danza e non si consuma whisky. I nostri ‘Saraceni’ non suonano musiche da ballo”.

Più realistica di me, mia moglie aggiunse: “Ragazzi, accomodatevi! Vuol dire che se lo spettacolo non vi piacerà, noi, dopo il primo tempo, vi restituiremo i soldi del biglietto”. Entrarono tutti. E a mano a mano che Massimo Troisi si addentrava nel suo lavoro, intitolato Non si ride di solo pane, quei ragazzi si divertivano da morire. Applaudivano con maggior calore dei sangiorgesi. Forse si rendevano conto che, con i suoi nonsense e con le sue sferzate, Troisi li stava facendo assistere a una svolta della comicità napoletana. Per effetto di un magico passaparola, da quella sera al “Sancarluccio” non rimase libera una sola sedia. In capo a una settimana decidemmo, d’accordo con Massimo Troisi, di sostituire la dicitura “I saraceni” con una del tutto nuova: “La smorfia”. E ciò perché non ci si potesse accusare di voler trarre vantaggio da un’omonimia. Al termine dei quindici giorni contrattuali, già in tutta Napoli si parlava di questo Massimo Troisi come di un autentico innovatore».

Dal “Sancarluccio” Troisi passò a un locale di Roma, “La chanson”. Era presente, fra il pubblico, un regista della Rai. Troisi e i suoi compagni di lavoro furono invitati a partecipare a un programma allora molto seguito. Non stop. Nel giro di meno di un mese, il timido ragazzo di San Giorgio a Cremano veniva salutato, in tutta Italia, come il rinsanguatore della comicità napoletana.

Nel novembre di quello stesso 1977, Massimo Troisi tornò al “Sancarluccio”. Il nuovo spettacolo, dal titolo Così è (se vi piace), ebbe risultati trionfali: la gente, in via San Pasquale a Chiaia, si metteva in coda fin dal mattino per prenotare i biglietti. Le sedie del “Sancarluccio” erano (sono) 126, abbiamo detto. Dal “Sancarluccio” Troisi passò direttamente al quasi attiguo “Metropolitan”. Tremila posti a sedere. Ma anche qui, code interminabili.

 

Continuavano, il “Sancarluccio” e Massimo Troisi, ognuno per proprio conto, i loro percorsi. E se il “Sancarluccio” scoprì e lanciò nuovi talenti. Massimo Troisi, volato dal teatro-cabaret al cinema, fu protagonista nel 1981 di Ricomincio da tre, nel 1982 di Morto Troisi, viva Troisi, e di No grazie il caffè mi rende nervoso.

Nel dicembre del 1982 Massimo, che ormai si era trasferito a Roma e che sembrava essersi completamente rimesso in salute, ricevette una telefonata da Franco Nico: «Vué, Massimo, il “Sancarluccio” festeggia i dieci anni di attività. Vuoi venire, una di queste sere, a spegnere con noi le candeline sulla torta?».

E così, il 23 dicembre 1982 Massimo Troisi fece la sua straordinaria rentrée al “Sancarluccio”. Salì sul palcoscenico e, accanto ai padroni di casa quanto mai commossi, e dinanzi a 126 privilegiati spettatori, spense le dieci candeline di una sterminata torta. Pronunciò poi un lunghissimo monologo che, fortunatamente, sopravvive in una videocassetta privata.

Ecco qua l’inizio di quel monologo: «Quando Franco m’ha detto che Carluccio ha fatto dieci anni, io ci sono rimasto. Come? Carluccio ha fatto già dieci anni? Io me lo ricordo piccerillo ca curreva… statte accorto, a ‘o traffico ccà fora… Certo, se ‘e teatre iessero ‘a scola, mo Carluccio facesse ‘a primma media… o ‘a quinta elementare. Quando gliel’ho detto, Franco m’ha risposto: “Che peccato che t’e venuta mo ‘sta battuta, avrei potuta scriverla, nel libro che celebra il decennale”. Franco, nun fa niente, la metterai nel libro dei vent’anni, ma statte accorto e nun sbaglia’ a scrivere. Dici che va all’università ‘o guaglione, se no ‘stu povero Carluccio fa ‘na figura ‘e merda…».

 

Massimo Troisi divenne oggetto, dopo la morte, avvenuta per infarto, nel giugno del 1994, di una sorta di beatificazione, specie da parte dei giovanissimi, che avevano individuato in lui l’estremo esponente della comicità targata Napoli, una comicità che aveva improvvisamente reso non più attuale quella, pur apprezzatissima, di Eduardo De Filippo ma che semmai per i giochi di parole di cui era intrisa, denunciava una parentela con quella di Totò. Un esempio di questa beatificazione è dato dal fatto che quando il treno della ferrovia Circumvesuviana entra nella stazione di San Giorgio a Cremano, decine e decine di ragazzi si affacciano ai finestrini e gridano: «Massimooo! Massimooo!».

E se Massimo Troisi si trova davvero sugli altari laici della popolarità, la sua più segreta reliquia è quella che si conserva lì, nel teatrino dei suoi esordi, sotto forma di inedita videocassetta, custodita da Franco e Pina. Ascoltiamone ancora un brano, quello che evoca la sua infanzia: «Turnavo a casa cu ‘na famme, ma guai se si incominciava a mangiare senza dire la preghiera: “Gesù, ti ringrazio per il cibo che ci hai mandato, e mandalo a tutti i bambini buoni”. Ma a me ‘sta cosa nun me sunava. E che? Se ‘nu bambino era ‘nu poco vivace se doveva muri ‘e famme?…».

Fonte: Vittorio Paliotti Napoletano si nasceva

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