Totò era soprannominato ò spione a causa del suo sogno segreto. Il principe della commedia aveva un inclinazione particolare per l’investigazione .
Totò era un reazionario autentico, nostalgico di una società ordinata e di uno Stato paterno. Non per nulla la sua ambizione, da ragazzo, era stata quella di diventare funzionario di polizia, tanto che sua madre lo chiamava «‘o spione». In realtà il suo sogno non era tanto di spiare, quanto di arrestare, le manette rappresentando ai suoi occhi il supremo simbolo dell’autorità. Ma forse gli sarebbe piaciuto metterle solo per poterle togliere.
Totò era soprannominato ò spione perché amava la giustizia. Quella stessa giustizia che lo aiutò a riconoscere i suoi titoli nobiliari (dandogli di fatto una nuova identità, riedificandolo agli occhi di un mondo per cui era sempre stato solo un buffone) è dunque anche una delle chiavi più autentiche e segrete della sua comicità. Non è un caso che fra le scene più celebri del suo cinema ce ne siano tante ambientate in tribunale, luogo mistico, chiesa per un rito di purificazione in cui la comicità ritrova il suo modello, la giustizia, e a essa si sovrappone, producendo stridori esilaranti.
La testimonianza meno conosciuta sull’inclinazione poliziesca di Totò è anche la più esplicita e ci arriva da un fan insospettabile, l’italianista e scrittore Luigi Maria Personè, che incontrò l’attore durante una tournée teatrale a Firenze, intorno al ’39.
Una sera, abbordai Totò. Non sapevo come cominciare. Gli dissi: «Le sono grato per il divertimento che ci offre. Lei ci libera dagli incubi, è un grande consolatore. Bravo». E lui, sfiorando col dito l’orlo della sua bombetta: «Bontà sua».
Gli esposi la mia opinione sulla difficoltà di far ridere la gente. «Lei» replicò, «crede proprio che la gente ride? Ride e piange. Il comico è come il giudice istruttore che indaga sui segreti degli indiziati di reato: e, di indiziati di reato, ce ne sono più di quel che si immagina. L’attore comico ha il coraggio di rivelare i reati; e, badi, l’esito dell’indagine e della relativa scoperta risulta, per la voce del comico, più grave di quello che porta alle manette. Sapesse come pesano certe meditazioni e certi rimorsi, mammamia».
Ci demmo appuntamento l’indomani in un caffè della vicina piazza Beccaria, quasi all’ingresso di una grande arena dove si erano fatti applaudire la bella Otéro e Clèo De Merode. Rammentammo anche loro. «Altri tempi», commentò Totò, «altre nature e altre voci. Vede, ora, uno come me che non ha voce, può cantare e farsi applaudire».
«Altro spirito», aggiunsi io. E lui assentì: «Ah, di quello ne ho ad abundantiam: e frizza, sa, oh se frizza sulle piaghe». «Sulle piaghe?», commentai. «Quali piaghe?» Totò: «Lei deve essere un uomo fortunato. Mi dà l’idea che ignori le preoccupazioni; e che non sappia quel che si nasconde dietro la maschera del comico. Il comico è un uomo che soffre, profondamente triste. Cerca di dimenticare la sua tristezza, reagendo. Reagisce, imponendosi di ridere e di far ridere. Ah! Ah! Che allegria».
Per quanti anni siano passati da quel lontano incontro, Personè riesce in poche righe a tracciare un sorprendente ritratto di Totò, consapevole di alcuni segreti meccanismi del suo mestiere. «Il comico è come il giudice istruttore», dice Antonio de Curtis, e in questa definizione ci stanno tutte le sue inclinazioni da investigatore, la sua passione per i grandi casi d’attualità, per i gialli di Simenon e le sfumature del codice penale, la convinzione che il primo compito del comico è spiare.
Questo non vuol dire che Totò sia, banalmente, un moralista e un moralizzatore, né tantomeno un censore. La vocazione del comico, anche se accenna un giudizio, non è né quella di condannare né quella di assolvere. Perennemente all’opposizione, il vero comico scardina le regole, mostra le magagne della società, porge uno specchio al re nudo, e poi si sottrae, per non correre il rischio di sedercisi lui, su quel trono.
Totò mette in scena la sua fame, la sua paura, la sua vanità, e contemporaneamente le celebra, facendo giustizia di altre, implicite, colpe: ingiustizie sociali, più semplicemente imperfezioni dell’uomo, la sua incapacità a bastarsi, ad amare fino in fondo, le sue tentazioni, la sua vitalità, la sua diffidenza. Tutte cose che Totò non giudica, ma di cui, trascinandole al cospetto di pubblico e giurati, fa comunque giustizia.
La differenza fra un comico dozzinale e uno autentico sta appunto nella sua reale capacità di far giustizia. Il comico di consumo finge di denunciare ma in realtà solleva un problema per crogiolarcisi dentro, per offrire una facile consolazione, per concludere rassegnato che mal comune sarà sempre mezzo gaudio; il comico per vocazione toglie il velo a un dramma e, ridendone, lo mette in evidenza, facendo frizzare piaghe aperte. Il primo è solo un simpatico intrattenitore, il secondo scherza col fuoco. Il primo consola, il secondo inquieta.
Totò apparteneva a questa categoria, anzi, fu attore comico fra i più inquietanti.
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