Spettacolo contro pragmatismo, una dicotomia ormai noiosa e smentita dalla prestazione di Roma. Due anime del calcio che, invece, possono e dovrebbero convivere.
Di: Elio De Falco
Spettacolo contro pragmatismo
Dalla rivoluzione di Guardiola sono passati ormai quasi 10 anni. La chiamo rivoluzione perché rivoltó come un calzino una squadra, orfana della sua stella Ronaldinho, che pareva ormai destinata ad anni d’inseguimento per ricostruire sulle macerie della gestione Rijkaard. La stessa scelta del tecnico di Santpedor de Llobregat indicava un’idea di ricostruzione, la disposizione ad attendere per tornare ad ottenere risultati.
Oggi, 5 anni e 3 tecnici – tra cui il compianto Tito Vilanova – dopo, e con un nuovo cambio al timone all’orizzonte, si continua ad associare il Barcellona al Tiki-Taka, come fu ribattezzato il sistema di gioco guardiolista.
L’epopea vincente (triplete nel 2009, ancora una Champions nel 2011, due Mondiali per club, due Supercoppe Europee, altri due scudetti, tre supercoppe spagnole e due coppe del re per un totale di 15 trofei in 4 anni) del Barcellona allenato da Guardiola fece risorgere il dibattito tra sostenitori del bel gioco e quelli che propendono per l’italianissimo “prima il risultato”.
Un dibattito stantío, che sembrava sotterrato da quando Capello prese il testimone di Sacchi, ritenuto addirittura poco vincente per i giocatori che aveva in rosa, al Milan, ma che é risorto con i successi blaugrana.
Un dibattito che ha ancora oggi pochi motivi per esistere: non esiste squadra che non curi entrambe le fasi – possesso e non possesso – e non si puó guardare né al Barcellona, né al Milan di Sacchi, né al Napoli di Sarri focalizzandosi solo su quanto accade o accadeva quando queste squadre avevano la palla.
Il Barcellona di Guardiola faceva una fase di non possesso esemplare, un pressing altissimo e coordinato, con la punta centrale (al tempo Eto’o) che si trasformava nel primo difensore. La palla veniva recuperata spesso e volentieri nella metá campo avversaria, sfruttando quindi una situazione che vedeva la squadra avversaria ovviamente sbilanciata perché dedita ad impostare la propria azione offensiva. A ció bisognava aggiungere una velocitá vertiginosa di palleggio e non un possesso statico come quello visto ieri sera in quel di Torino. No, il Tiki-Taka non é il possesso fine a sé stesso che alcuni vogliono far passare come timbro identitario della squadra piú vincente degli ultimi 15 anni.
La partita di Roma é l’ennesima dimostrazione di quanto priva di fondamento sia questa dicotomia, di quanto artificioso sia questo conflitto.
Giocare bene non vuol dire non curare la fase difensiva e domenica ne abbiamo avuto ulteriore conferma: il bel gioco comprende anche una fase difensiva curata, una velocitá di palleggio che crea, come visto nel secondo gol, l’errore della difesa, uno sviluppo dell’azione volto a creare le occasioni. Poi é anche vero che un possesso palla maggiore rispetto all’avversario diminuisce nettamente le possibilitá di subire occasioni da gol.
All’Olimpico il Napoli ha dimostrato di essere bello e pragmatico, ha dimostrato che due anime apparentemente opposte del calcio possono tranquillamente convivere. Gli uomini di Sarri hanno gestito palla e ritmo di gioco a proprio piacimento, affondando in modo mortifero quando hanno voluto e rischiando la goleada se Insigne avesse stretto di piú la parabola del suo tiro a fine primo tempo o se Callejón fosse arrivato un secondo prima sul tiro-cross di Hamsik in avvio di ripresa. Bellezza ed efficacia, un connubio che gli azzurri hanno cementato sul prato capitolino perché non é detto che il bello non possa essere pragmatico: se sconfinassimo nell’arte, scopriremmo che la scuola Bauhaus accomunava l’estetica alla funzionalitá.
La Lazio non s’é vista se non dopo il 2-0, non s’é vista se non per una reazione d’orgoglio che é prevedibile in una formazione quarta, non quart’ultima, in campionato (e finalista di Coppa Italia), specialmente se gioca davanti al proprio pubblico.
Qualcuno ha storto il naso, forse impaurito dall’occasione sventata da Insigne sulla linea, come se fosse possibile non concedere assolutamente nulla ad una squadra come quella biancoceleste che, pur con assenze pesanti, ha in rosa un talento offensivo notevole. La velocitá di Keita, la fantasia di Felipe Anderson, la fisicitá ed il senso del gol di Ciro Immobile, i tempi d’inserimento di Parolo, sono tutte armi che hanno permesso alla truppa di Inzaghi di palesarsi come squadra rivelazione della stagione, tralaltro in un ambiente che ha accompagnato ben poco, perso com’era tra le polemiche dei tifosi, da un lato, verso il presidente Lotito e, dall’altro, verso l’ormai risolta questione barriere dell’Olimpico. Sottovalutare una squadra che ha saputo sovrapporsi ad un ambiente cosí agitato sarebbe un’ingenuitá molto grave.
Il grande merito del Napoli é stato invece accomunare la solita fluiditá offensiva, non dimentichiamoci che nel calcio occorre segnare, ad uno studio attento e di profitto delle caratteristiche dell’avversario, fermando sul nascere le ripartenze che avevano fatto la fortuna di una Lazio che ricorda, a tratti, la filosofia mazzarriana o rejana che tanto hanno contribuito a riportare in alto la piazza partenopea.
Il calcio, a volte, é come le donne che canta Fiorella Mannoia in “Quello che le donne non dicono”, dolcemente complicato. Il calcio si diverte a smontare quelle costruzioni antagoniche di pensiero che contrappongono fattori che, come dimostra il fatto che il Napoli é la seconda squadra per minor numero di tiri subiti in Serie A, sono due facce della stessa medaglia, due lati della stessa persona che convivono e si complementano.
L’ha capito Guardiola, che creó un’orchestra perfetta nelle due fasi. L’ha capito Sarri, penalizzato da errori individuali e anche da un pizzico di sfortuna, che si avvicina sempre di piú a quello spartito che, di certo, ha in mente ed ancora non ha finito di scrivere.
Quel 7-8% di cui parla il tecnico azzurro é nei dettagli, quelli che ti cambiano la stagione da importante a vincente. Il Napoli é, parafrasando ironicamente Nicolás Higuain, davvero vicino alla perfezione, almeno per quanto riguarda ció che fa in campo.
Dettagli, dicevamo, cose che apparentemente sembrano insignificanti. Ma che cambiano tutto o quasi. L’eccessiva foga di Diawara che genera la palla persa sul passaggio a memoria di Hamsik porta al calcio d’angolo sui cui sviluppi il Real Madrid pareggia nel ritorno di Champions, l’errore di Ghoulam regala il secondo corner sul quale Ramos firma il 2-1 che chiude i giochi, la follia di Koulibaly che regala il vantaggio alla Roma al San Paolo; questi ed altri errori appaiono, guardando il mero tabellino, come inezie e invece cambiano radicalmente le sorti di una partita, ne stravolgono l’interpretazione da dare, fanno saltare i piani. Cosa sarebbe successo senza i due errori “non forzati” (concedetemi il termine tennistico) commessi contro il Real Madrid? Cosa sarebbe successo se il Napoli non avesse regalato il vantaggio alla Roma?
Errori come questi, cosí come quelli ancor piú dolorosi dell’andata di campionato contro la Juventus (sono fioccate le richieste a Fantagazzetta per assegnare due assist a Ghoulam), vanificano il lavoro fatto fino a quel momento ed hanno il brutto difetto di viziare i giudizi a posteriori in base al risultato.
Non é vero, dunque, che bel gioco e pragmatismo siano due cose opposte, essere belli e pragmatici si puó, poi il confine tra essere primo o primo dei perdenti diventa tanto sottile da essere definito da ció a cui si fa meno caso: i dettagli.