Leggende di Napoli

CONOSCI LA STORIA DELLA CAPA ’E NAPULE?

DONNA MARIANNA, ’A CAPA ’E NAPULE

Conosci la storia della  capa ’e napule? Te la trovi davanti e lo sai, è l’anima della città. È la seducente, lontana reminiscenza di un passato lontano, perduto nella memoria genetica dei napoletani.

Guardando a capa ’e napule non si frena la commozione di andarle incontro e restare a fissarla, questa donna, archetipo anacronistico di femmine napoletane, imponenti matrone madri dominate di una metropoli del Ventesimo secolo.

Chi altri potrebbe essere se non Napoli stessa? Austera orgogliosa, morbida nel suo marmo opulento, corrosa dal tempo e dalla luce, dal fiato del mare; sfiancata dai racconti della gente che tornava a sederle vicino per sussurrarle confidenze indicibili. 

Nella Napoli del  600, Marianna sarebbe stata la moglie di un commerciante del Mercato, adocchiata dal duca di Medina Coeli, che non «fuggì come Lucia [manzoniana] tra le sottane dei francescani, ma, invitata a palazzo, rise sulla faccia del viceré e sulle sue profferte»; e quando per vendetta il marito fu arrestato, Donna Marianna di risposta scatenò la rivolta: scese in piazza, aizzò la massa, le carceri furono prese d’assalto; imprigionati i dignitari spagnoli e i nobili napoletani.

Questa Marianna che si mise contro gli spagnoli combattendo l’Inquisizione: «Letteratura per letteratura quello che si è fatto a Parigi nel 1789, si era fatto a Napoli nel 1647 – per mano di una donna – (del resto) lo stesso Croce collega la nascita dell’Illuminismo francese a quella data, che vide il filosofo comunista Campanella e il fruttivendolo analfabeta Masaniello levare lo stesso rivoluzionario grido di “fora baruni”!» (A. Bordiga, Il rancido problema del Sud).

Una testa enorme, avanzo di un corpo, poggiata su un’erma da un pietoso ritrovatore, sistemata in un angolo di piazza Mercato a far compagnia alla città. Questa Ariannanapoletana, per metà fatta di mare, filo rosso bollente di memorie partenopee, che sfuggono agli austeri minotauri per finire inghiottite dai loro labirinti.

Il Risanamento l’ha imprigionata oltre la lunga scala di Palazzo San Giacomo – piazzata oltre il cancello del Municipio dove è impossibile incontrarla – strappandola al mare che già da tempo non esisteva più che nel nome della piccola chiesa allagata di San Giovanni, pietra nera e acqua salata, di memorie di templari e cavalieri rosacrociani in viaggio per la terra di Cristo.

’A capa ’e Napule, faccia di sirena fondatrice: Partenope, pensarono in tanti, portata dall’acqua per proteggere i napoletani e i naviganti, quegli stessi pescatori che con appassionata devozione pregheranno la Madonna Bruna. Partenope restituita dai flutti, lasciata a protezione del mare su un lembo di spiaggia; o forse Cibele o Venere, matrona possente dallo sguardo intenso, accenno di figura, metonimia di una splendida madre napoletana, di quelle che trovi a gesticolare per raccontare storie da balcone a balcone. I capelli raccolti, il viso florido, autentica e austera, protettrice, o semplice straordinario incontro da cui non ci si può esimere.

A lei affidarono, nei secoli, le suppliche e le lacrime, le lamentele e gli affanni; su di lei si avventarono durante la rivolta di Masaniello, adirati, tumultuosi, indispettiti, frantumandole quel naso che solo quattro secoli dopo le sarà con cura ricomposto. Era la testa di piazza Mercato, consolazione di chiacchiere superflue di preghiere necessarie, figura di statua parlante e profetica come avrebbe voluto Bruno; reminiscenza di leggende virgiliane, come la vuota statua di bronzo che a Mezzocannone sibilava (e sibillava) al soffiare del vento «che il volgo senza intendere rispettava come sacra parola» (T. Dalbono).

Monumenti in pezzi, frammenti scultorei entrati nella vita privata dei napoletani, osservatori privilegiati di questa storia; statue fatate e parlanti, mezzo di contestazione, pasquinate romane e invettive napoletane affidate al corpo pietroso di eterni abitanti.

Marianna contesa nelle divine cerimonie, negli abbellimenti floreali della festa di Sant’Anna, spostata di fronte alla Chiesa di Santa Maria dell’Avvocata, vestita e riverita di ghirlande nastri e balletti di popolane festeggianti, fusa e confusa con la statua della santa. O più probabilmente ricordi di simboli e di immagini che con la danza e il canto conducono agli dei. Ratiomagica di segrete tradizioni tramandate che animano il marmo e la pietra, che sciolgono il sangue e le lacrime che sprigionano profumi e accolgono ritmi arcani di pratiche profetiche ed estatiche.

Un pomeriggio del settembre del ’54 Giovanni Artieri, Amedeo Maiuri e Augusto Cesare andarono in piazza del Mercato a vedere quello che la guerra aveva lasciato. Poco e niente, “il guasto e la polvere avvolgevano ugualmente l’arco di Sant’Eligio e la facciata gotica di San Giovanni a Mare.

E di fronte il piedistallo di Marianna ‘a capa ‘e Napule era vuoto. Alla colonna appoggiava le spalle una bellissima venditrice di pannocchie bollite, una spicaiola: «Signo’», gli disse, «l’hanno luvata stammatina. Dice c’ha mettono dinte ’o Municipio. Mo ce stongh’io». La Cibele era stata tolta per trovar posto nel Municipio, la popolana ne prendeva il posto, in quella pratica napoletana di fede e blasfemia, di devozione e di superstizione, di gioco religioso che ci fa convivere con gli dèi senza pudore.

E intanto lei, Donna Marianna, dalla cima dell’imponente scalone, ha voglia di tornare a consumarsi al sole e all’aria, perduta tra i fiati di salsedine che montano da chissà quale mare, nascosto tra i palazzi e i corpi nelle navi da riparare. Tornare tra la gente, per tornare ad ascoltare. Che in trono su questa scala ci mettano la fotocopia delle Belle Arti confezionata nel 2003, quella che ha preso il suo posto alla chiesa di San Giovanni a Mare. Donna Marianna è come Napoli, non è una reliquia da custodire in un museo.

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