I Primati di Napoli

Pulcinella che si toglie la maschera: Pino Daniele, anima di una città

«Il nero a metà, l’americano della nuova Napoli che sognava di veder passare la “nuttata”, il mascalzone latino, il Lazzaro felice, l’uomo in blues, il musicante on the road, il neomadrigalista, cantautore che negli anni in cui dominava il messaggio non mise mai in secondo piano la musica, pur avendo cose da dire, e che cose».

La sua non era solo la musica, ma l’anima della sua città. Scorrere i titoli di Pino Daniele vuol dire attraversarla da cima a fondo. Viverci. Non solo per la grande poesia che le ha dedicato, dal titolo «Napule è», ma per quel misto di tenerezza e nostalgia che scorre nelle parole di pezzi come «Quann’ Chiove», «Putess’ Essere allero». O della canzone dedicata a «Fortunato», che vendeva con il suo carretto i taralli per i suoi vicoli.

Se lo è chiesto tante volte perché i napoletani fossero così vicini alla sua musica, alle sue parole. Forse per quella sua capacità di dire anche le cose scomode, di svelarne con delicatezza e rabbia le contraddizioni. Quella sua grande amicizia con Massimo Troisi, le sue colonne sonore che dicevano in musica quello che gli attori dicevano nel copione del maestro di «Ricomincio da tre».

„Alleria, pe’ ‘nu mumento te vuò scurdà che hai bisogno d’alleria, quant’e sufferto ‘o ssape sulo Dio. E saglie ‘a voglia d’alluccà, ca nun c’azzicche niente tu, vulive sulamente da’: e l’alleria se ne va… (da Alleria, 1980)“

Ogni canzone è un tuffo nella vita, come quel passaggio in cui dice di un bambino che, tenuto in braccio, tocca la faccia del papà per non fargli vedere, gesto vissuto mille volte dai papà e raccontato da Pino con tutto l’amore del mondo in «Putess’ essere allero». Oppure l’ironia amara di «Na’ Tazzulell’e cafè», dove l’idea di una città presa in giro viene con tutta l’amarezza possibile. Oppure quel verso di «Suonn r’aiere»: «Pulecenella mio/ Comme sì’ cagnato/ Sta maschera nera t’à si’ levata/ Quanta dulure/ E quanta suonno d’ajere/ Ce sta chi dice/ Ca nun viene cchiù/ Ma nun è overo/Ca ie so’ fernuto/ E allucco pe’ tantö dulore/ Pe’ tantö dulore…»: le sue canzoni non dovevano essere tradotte perché arrivavano dritte al cuore di tutti.

„Nun da’ retta è meglio ca ognuno penza a sé. Nun fa’ comm’a me, che parlo sulo, che faccio capa e muro. (da Carte e cartuscelle, 1989)“

In questo caso vale un eccezione: «Pulcinella mia, come sei cambiato, ti sei tolto questa maschera nera, e quanti sogni di ieri, c’è chi dice che non verrai più ma non è vero che io sono finito, e grido per tanto dolore, per tanto dolore..».

Ecco forse perché anche a distanza di trent’anni i suoi concerti erano pieni per ascoltare le sue vecchie canzoni: perché nessuno come Pino Daniele ha saputo gridare per quel dolore che non andava via. Regalare una musica dolce e amara per cambiare le cose. E ci è riuscito.

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