Il culto delle anime pezzentelle, la morte, a Napoli, non è mai definitiva, per questo motivo sono nati una serie di culti per i defunti.
CULTURA NAPOLETANA – A Napoli si praticava l’imbalsamazione. Le mummie Aragonesi della basilica di San Domenico Maggiore. Egiziani abitarono l’odierna spaccanapoli in armonia con la cultura greco-romana. Il culto dei morti a Napoli e le Anime pezzentelle.
La Basilica di San Domenico Maggiore
Erodoto parlò di mirra, vino di palma, olio di cedro. La scienza aggiunse che per l’imbalsamazione venivano impiegate anche cera d’api o sostanze resinose, e mai bitume, come invece si presupponeva.
Tuttavia, stiamo parlando di corpi mummificati intorno alla I dinastia egizia, tra il 3000 e il 2000 prima della nuova era, al più tardi di quattromila anni fa.
Si può immaginare, quindi, la sorpresa quando furono scoperti quarantadue feretri risalenti al Rinascimento aragonese che contenevano mummie in perfetto stato di conservazione, quasi tutte di nobili e di reali, in pieno centro storico della città di Napoli: nella sacrestia monumentale della basilica di San Domenico Maggiore.
Egiziani abitarono l’odierna spaccanapoli
La morte è una cosa seria. Nessuno lo sapeva meglio degli antichi egizi. E, a Napoli, i figli dei faraoni erano di casa. Gli alessandrini abitavano la Regio nilensis ai confini di Spaccanapoli, e ancora oggi alcune vie ricordano la loro presenza.
Basti ricordare piazza Nilo, il Sedile del Nilo (o del Nido, eredità delle antiche fratrie) e la statua del Corpo di Napoli, il loro segno più tangibile, si potrebbe dire: il dio fiume sotto forma di un vecchio barbuto che allatta dei putti, ritratto con una sfinge L’archeologo Bartolomeo Capasso ipotizzò che tutta l’area doveva essere particolarmente movimentata dai nilesi che occupavano anche l’odierna via Mezzocannone.
Il culto dei morti a Napoli: Le anime pezzentelle
La morte, a Napoli, non è mai definitiva. Da una parte la cultura greco-romana, dall’altra quella egizia, hanno fatto del trapasso un cammino tra diversi piani della realtà, e il culto sopravvissuto dei defunti e delle anime pezzentelle che cercano refrigerio con un gesto d’amore e d’accoglienza lo afferma chiaramente.
Qui, a parte le confraternite che “curano la morte”, fu addirittura costituito un ordine cavalleresco, un sodalizio fondato nel 1352 riservato esclusivamente ai “primi” nobili del regno. Gli eletti si adunavano nei saloni del Castel dell’Ovo il giorno di Pentecoste che aveva sostituito la celebrazione di Calendimaggio: l’Ordine del nodo.
Le mummie Aragonesi
Il corpo doveva essere preservato perché lo spirito del defunto potesse ritrovarlo e occuparlo di nuovo. Questa cultura, per così dire, infettò pure la corte aragonese la quale disseminò le opere napoletane di simboli ermetici che fissò in mura, archi e portali.
Nella Camera sancta della basilica di San Domenico Maggiore nell’omonima piazza, invece, gli aragonesi organizzarono una camera ardente speciale, una stanza sepolcrale per ingannare la morte, e perciò, evidentemente, denominarono le loro cassa mortuarie Arche: il senso etimologico di “protezione”, “riparo” o custodia.
Sono sopra la tribuna lignea dal 1709 – in precedenza erano nell’abside ottagonale della chiesa – e compongono un tesoro unico poiché, oltre alla buona conservazione delle mummie, si conosce esattamente la loro identità, per cui la curiosità degli storici ha potuto navigare come non mai tra i flutti dell’era in cui vissero i defunti, tra il XV e la metà del XVII secolo.
Inoltre, malgrado alcuni cadaveri siano stati razziati dei propri beni che li accompagnavano nel loro viaggio nell’aldilà, e alcune casse siano state trovate vuote, l’abbondanza di vestiti, broccati, gioielli e armi recuperate rendono il tutto un capitale inestimabile, benché sconosciuto ai più.
Non tutte le mummificazioni sono artificiali
Uno degli aspetti più interessanti emersi dagli esami scientifici è che non tutte le mummificazioni sono artificiali, cioè praticate dagli imbalsamatori.
Ben sette casi, infatti, sono risultati di una mummificazione naturale causata, probabilmente, dalle condizioni microclimatiche napoletane del Cinquecento e del Seicento che dimoravano nella basilica di San Domenico Maggiore.
Anche tale aspetto doveva essere noto giacché, nella cripta della chiesa, alcuni locali furono adibiti alla scolatura dei cadaveri, con sedute per i morti e letti sabbiosi per raccogliere i liquidi in decomposizione dei defunti.
fonte: Maurizio Ponticello