El Goyo era per Diego Armando Maradona come un fratello gemello. Era più bravo di Diego a giocare al pallone poi l’incidente.
Diego Armando Maradona il più grande giocatore di tutti i tempi aveva un amico, che considerava più di un fratello, un gemello in campo, più bravo di lui. Sembra incredibile ma questa storia di vittoria e dolore è stata addirittura potata al cinema.
L’altro Maradona, è il titolo del docufilm che racconta la storia di Gregorio Goyo Carrizo, conosciuto da tutti come El Goyo, il gemello di Maradona.
IL GEMELLO DI MARADONA
Diego Armando Maradona aveva come un fratello gemello, però più bravo di lui a giocare al pallone. Gregorio. Bambini, poi adolescenti, inseparabili: i campetti di polvere, pietre e miseria di Fiorito, che se non sei del quartiere è meglio stare lontano. Francisco Cornejo viveva lì, faceva l’allenatore e lavorava per un club importante, l’Argentinos Juniors: il giorno che decise di mettere su una squadra di ragazzini del posto, ciabattò dubbioso da un cortile all’altro, cercava talenti e tutti gli parlavano di quel fenomeno di Gregorio. Il piccoletto disse va bene, don Francis, ci sto: «Ma a un patto: posso portare un amico? Diego è un pibe que la rompe, uno che spacca. Un fratello, per me».
Don Francis non sapeva nemmeno che nome dare alla squadra, poi li guardò uno per uno: erano così magrolini, avevano 13 anni ma ne dimostravano meno. Decise di chiamarli Los Cebollitas, le cipolline: si aggiudicarono 140 partite consecutive, un torneo dedicato a Evita Perón e due campionati. La squadra più vincente nella storia del calcio argentino. Era il 1973. Diego indossava già la maglia numero 10. Gregorio, l’Altro Maradona, la numero 9. E fece quasi tutti i gol.
L’INFORTUNIO E L’ASCESA DEL PIBE DE ORO
El Goyo il “gemello” di Maradona vive ancora a Fiorito. Moglie, 6 figli. È un busca, come dicono qui, nel senso che ogni giorno cerca lavoro: oggi muratore, domani venditore ambulante, attacchino. Si arrangia. Gregorio Carrizo lo conoscono come el Goyo. El Diego, el Goyo. Lui non è diventato un campione, no.
«È successo tutto dopo aver fatto un dribbling, uno di troppo: perché mi piaceva superare gli avversari, mi sembrava di volare. Invece all’improvviso ho sentito qualcosa che si rompeva, dentro il ginocchio. E mi sono fermato. Per sempre».
Aveva 18 anni, stava per debuttare in prima squadra come l’amico, il gemello. Invece l’infortunio, l’operazione. Lui in un letto di ospedale, mentre l’altro cominciava a diventare grande.
«All’inizio Diego mi ha aspettato. Mi ha anche pagato le cure per la riabilitazione, la palestra. Però io ero troppo pigro, o forse troppo impaziente. Avrei dovuto continuare con gli esercizi per sei mesi, dopo 20 giorni m’ero già stufato».
Il Goyo Carrizo ritorna sul campo, ma da quel momento è tutta la sua vita che si mette a zoppicare. «Mi dicevano: il tuo amico è arrivato in alto, tu sei migliore e devi raggiungerlo, come minimo. Tutti si aspettavano che facessi meraviglie, ma ero sempre con la borsa del ghiaccio sul ginocchio. Una partita in prima divisione, un altro infortunio. E allora ho cominciato a passare da una squadra e da una città all’altra: sempre più piccole, più lontane. Poi sono tornato qui».
EL GOYO E DIEGO MARADONA
El Goyo e Diego, i due «fratelli gemelli» nati nel 1960, nello stesso barrio e a nove giorni di distanza l’uno dall’altro, dopo quel dribbling di troppo – e la rottura dei legamenti, del destino – si sono rivisti solo in poche occasioni.
«L’ultima è stata quasi 10 anni fa, lui era il commissario tecnico della Nazionale e sono andato a trovarlo al termine di un allenamento». Poche parole, sorrisi imbarazzati, forse nemmeno una stretta di mano. Dicono che a suo tempo Maradona gli abbia offerto un aiuto economico, una casa migliore dove andare a vivere insieme alla sua famiglia. Ma il Goyo – orgoglioso – è rimasto a Fiorito. Il tempo ha fatto il resto.
Nel quartiere c’è ancora la canchita, il campetto dove loro due hanno cominciato a giocare. Polverosa come allora, forse peggio: in un angolo hanno rovesciato una montagna di calcinacci, le porte sono arrugginite e una traversa è tutta piegata. Ma c’è una strana atmosfera, e pare quasi di sentire l’eco delle grida di bambini. «Era un piccolo terreno di mio padre, che lo aveva preparato solo per noi: ci aveva buttato sopra della terra, poi con delle canne aveva fatto la porta, comprato le reti. Qui sognavano di vincere i mondiali di calcio».
È la terra dei Carrizo, spiega: «Per me questa è terra santa: perché è qui che ho conosciuto Diego. Perché qui eravamo imbattibili. E quando abbiamo smesso di giocare qui, è come se l’anima avesse abbandonato il mio corpo».