Ha antiche origini la festa in onore della Madonna del Carmine, che ogni anno si svolge a Piazza Mercato.
Di: Francesco Pollasto
Come in tutto quello che riguarda la napoletanità più verace, quella tramandata, quella che non si improvvisa ma si forma nel DNA di chi nasce in questi luoghi, chi respira l’aria del golfo, di chi il Vesuvio è il panorama, e non il nemico
Una celebrazione a metà tra il Sacro e il Profano, che affonda le origini del proprio significato nelle sommosse guidate da Masaniello, con il nome della Madonna che viene ancora oggi utilizzato come esclamazione sorpresa da parte dei napoletani, il diffuso “Mamm ro Carmine”, e nelle battaglie tra angioini e aragonesi.
La gloria arriva, e arriva ogni anno il 15 di Luglio, il campanile si spoglia delle sue vesti di guardiano della piazza e si veste di luce. “L’incendio” è una memoria storica, tramandata da padre in figlio, vi accorrono migliaia di persone, col naso all’insù, incantate e il gigante lascia fare, si mette in “luce” solo per una sera ma quella sera è attesa per 365 giorni.
Ai tempi di Masaniello, c’era l’usanza di fingere un attacco ad un fortino in legno costruito in piazza del Mercato per poi chiudere la rappresentazione con l’incendio dello stesso.
Masaniello, era uno dei capi dei lazzari che assalivano il fortino, e la sua rivolta iniziò proprio durante i preparativi della festa del Carmine.
Durante il regno dei Borbone, i sovrani di Napoli omaggiavano la Vergine, regalando ogni anno due barili di polvere pirica per gli spettacoli esterni.
Nel secolo scorso, la festa richiamava folle da ogni parte della città e della provincia, caratteristiche erano le bancarelle dei venditori di impepate di cozze, di cocomeri, e soprattutto la tradizione casalinga del tarallo e della birra al balcone di casa propria mentre si ascoltavano le canzoni radiodiffuse per le vie del quartiere.
Origini Sacre
La tradizione racconta che alcuni monaci, fuggendo la persecuzione dei saraceni in Palestina, venendo in Napoli, portarono un’immagine della Madonna da essi venerata sul monte Carmelo, culla del loro ordine. Vi era in Napoli, presso la marina fuori la città, una piccola cappella dedicata a san Nicola che fu concessa ai monaci, che da allora vi si insediarono e collocarono l’immagine della Madonna in un luogo detto “la grotticella”.
Ma il primo documento storico della presenza dei carmelitani a Napoli si ha nel 1268, quando i cronisti del tempo descrivono il luogo del supplizio di Corradino di Svevia nella piazza antistante la chiesa di Santa Maria del Carmine.
In realtà, l’Icona della Vergine Bruna (per il colore della pelle) sembra opera di scuola toscana del XIII secolo. È una tavola rettangolare, alta un metro e larga 80 centimetri. L’immagine è del tipo detto “della tenerezza”, in cui i volti della Madre e del Figlio sono accostati in espressione di dolce intimità (modello bizantino della Madonna Glykophilousa). Come in ogni icona ne possiamo leggere un messaggio:
- le aureole dorate e il fondo dell’icona, anch’esso dorato (l’oro simboleggia il colore del sole), indicano la santità della Madre e del Figlio;
- il colore azzurro-verde (colore dell’acqua marina, simbolo della fertilità) del manto della Madonna ricorda il valore della sua maternità divina;
- il colore rosso (simbolo dell’amore) della tunica sotto il manto e della quale una parte copre il bambino, indica il forte amore che unisce la Madre al Figlio;
- la stella con coda pendula del manto è segno della sua verginità;
- la tunica color pelle di pecora del bambino ci ricorda che egli è l’Agnello di Dio;
- la mano sinistra della Madonna, che stringe in braccio il Figlio è segno di tenerezza. La mano destra, in risposta alla supplica: “Mostraci il frutto del tuo grembo, Gesù…”, indica: “Ecco la via, la verità e la vita”;
- I volti della Madre e del Bambino sono accostati in espressione di tenerezza.
Il miracolo del crocifisso
Il miracolo del crocifisso è legato alla lotta, nel secolo XV, tra gli Angioini e gli Aragonesi, per il dominio di Napoli. Già dominava in Napoli Renato d’Angiò, il quale aveva collocato le sue artiglierie sul campanile del Carmine, trasformandolo in vera fortezza, quando Alfonso V d’Aragona assediò la città, ponendo l’accampamento sulle rive del Sebeto, nelle vicinanze dell’attuale borgo Loreto.
Secondo la tradizione il 17 ottobre 1439, l’infante Pietro di Aragona fece dar fuoco a una grossa Bombarda detta la Messinese, la cui grossissima palla, (ancora conservata nella cripta della chiesa), sfondò l’abside della chiesa e andò in direzione del capo del crocifisso che, per evitare il colpo, abbassò la testa sulla spalla destra, senza subire alcuna frattura. Il giorno seguente, mentre l’infante Pietro dava di nuovo ordine di azionare la Messinese, un colpo partito dal campanile, dalla bombarda chiamata la Pazza, gli troncò il capo.
Re Alfonso tolse allora l’assedio, ma quando, ritornato all’assalto nel 1442, il 2 giugno entrò trionfalmente in città, il suo primo pensiero fu di recarsi al Carmine per venerare il crocifisso e, per riparare l’atto insano del defunto fratello, fece costruire un sontuoso tabernacolo. Questo però, compiuto dopo la morte del re, accolse la miracolosa immagine il 26 dicembre del 1459. Da allora, l’immagine viene svelata il 26 dicembre di ogni anno e resta visibile al gran concorso di fedeli per otto giorni, fino al 2 gennaio.
La stessa cerimonia si ripete nel primo sabato di quaresima per ricordare l’avvenimento del 1676, in cui Napoli fu risparmiata da una terribile tempesta, sedata secondo la leggenda popolare dall’intercessione del crocifisso svelato in via eccezionale per l’occasione nefasta.
Nel 1766 fu alquanto modificato e innalzato così come ancora oggi lo si ammira.
Miracolo e devozione del mercoledì
Nel 1500 in occasione dell’Anno Santo la confraternita dei Cuoiai portò a Roma in processione il crocifisso (che si trova ancora nel transetto laterale) e la Madonna Bruna. Numerosi miracoli si verificarono nel corso del pellegrinaggio; l’immagine rimase per tre giorni nella basilica di San Pietro in Vaticano, durante i quali, sparsasi la fama dei suoi prodigi in Roma, tutti i fedeli furono attirati ad essa, tanto che il papa Alessandro VI, temendo che il fervore dei fedeli si attenuasse nella visita delle basiliche, ne ordinò il rientro a Napoli. L’icona della Madonna che prima del pellegrinaggio era in un luogo detto “la grotticella” fu spostata sull’altare maggiore e successivamente posta in una cona di marmo, con figure di profeti, opera attribuita ai fratelli Malvito che operarono a Napoli tra il 1498 ed il 1524.
Dopo eventi così sorprendenti, Federico d’Aragona, il quale reggeva la città di Napoli, ordinò che per il 24 giugno, giorno di mercoledì, tutti i malati del regno si portassero al Carmine per implorare dal cielo, la sospirata salute. Infatti, nel giorno stabilito, alla presenza dei sovrani e del popolo, durante la consacrazione, un raggio di vivissima luce si posava contemporaneamente sull’Icona della Bruna e sopra gli infermi, i quali in un istante furono guariti o videro alleviati i loro mali.
Da allora si scelse il mercoledì come giorno da dedicare tutto alla Madonna Bruna, e ancora oggi, dopo 500 anni, numerosi fedeli vengono in pellegrinaggio da ogni parte della città e della provincia, per deporre ai piedi della Mamma d’o Carmene un fiore, una preghiera, un ringraziamento.
Masaniello
Filippo IV di Spagna, mandò come viceré a Napoli il Duca d’Arcos, il quale volendo trarre sempre più somme di denaro per la Spagna, imponeva alla città tra le altre gabelle, quella sulla frutta. Il 7 luglio 1647, mentre si preparavano i festeggiamenti per la Madonna del Carmine, il popolo napoletano, capeggiato da Masaniello (che a sua volta era politicamente manovrato da Don Giulio Genoino), insorse contro il viceré chiedendo l’abolizione delle gabelle, incendiando case, facendo vittime e distruggendo ogni cosa che appartenesse ai nobili, nemici del popolo. Gli storici dell’Ottocento dipingono questa rivoluzione come antispagnola e antimonarchica, ma studi recenti ne dimostrano l’incongruenza, a partire dal grido con cui fu sollevato il popolo: «Viva il re di Spagna, mora il malgoverno». Intanto la chiesa e il convento divennero luogo di comizi popolari, per cui si stipulavano negoziati tra popolo e viceré.
Giovedì 11 luglio, Masaniello cavalcò con il Cardinale Filomarino ed il nuovo eletto del popolo Francesco Antonio Arpaia, tra le acclamazioni ed i festeggiamenti dei popolani fino a Palazzo Reale, per incontrare il viceré. Alla presenza del duca d’Arcos, a causa di un improvviso malore, perse i sensi e svenne iniziando a manifestare i primi sintomi di quell’instabilità mentale che gli procurò poi l’accusa di pazzia. Durante l’incontro, dopo un infruttuoso tentativo di corruzione, il pescatore fu nominato “capitano generale del fedelissimo popolo napoletano”.
Il 16 luglio, giorno della festa della Madonna del Carmine, dalla finestra di casa sua, cercò inutilmente di difendersi dalle accuse di pazzia e tradimento che provenivano dalla strada. Sentendosi braccato cercò rifugio nella chiesa del Carmine, e qui, interrompendo la celebrazione della messa, si spogliò nudo e iniziò il suo ultimo discorso al popolo napoletano. I frati lo invitarono a porre fine a quel gesto poco edificante, ed egli obbedì, mettendosi a passeggiare nel corridoio principale del convento. Là lo raggiunsero alcune persone armate, che prima gli tirarono quattro colpi di archibugio, togliendogli la vita, e poi lo decapitarono. La testa mostrata al viceré fu portata in giro per la città mentre il corpo fu buttato in un fosso fuori la porta del Carmine. Non erano passate ventiquattr’ore che subito si videro i frutti dell’uccisione di Masaniello: il peso del pane diminuito e le gabelle rimesse in vigore. Il popolo si rese subito conto dell’errore e così ne raccolse il cadavere lavandolo nelle acque del Sebeto, la testa fu ricongiunta al corpo e subito portato in processione, il corpo fu sepolto all’interno della chiesa del Carmine. Alle tre del mattino, finita la processione, fu data sepoltura al feretro nella chiesa del Carmine, dove i resti di Masaniello rimasero fino al 1799. In quell’anno, dopo aver represso la congiura giacobina per la Repubblica Napoletana, Ferdinando IV di Borbone ne ordinò la rimozione al fine di evitarne l’idolatria popolare.
Fino agli anni sessanta del secolo scorso, nemmeno una parola ricordava i luoghi che videro l’uccisione e la sepoltura di Masaniello: fu così che i carmelitani decisero di tramandare ai posteri il ricordo di quegli eventi con due lapidi, una nel convento dei frati, l’altra in chiesa nel luogo della sepoltura.
Incendio del campanile
In occasione dei festeggiamenti in onore della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, ha luogo il tradizionale simulacro di incendio del campanile. Quando sia iniziata questa tradizione non è conosciuto
Alle ore 22.00 del 15 luglio si spengono le luci della piazza, e ha inizio lo spettacolo: girandole colorate richiamano l’attenzione dei presenti, poi dei bengala colorati con la scritta Napoli devota alla Madonna Bruna ricordano allo spettatore che quello spettacolo appartiene al popolo, e così, ha inizio l’incendio del Campanile.
“Ecco sta partenno sorece” si ode dalla piazza, il topo in italiano corretto, un razzo parte dal un terrazzo per colpire la nicchia delle campane e in un turbinio di esplosioni ha inizio l’incendio: delle piogge colorate rivestono l’intera mole del Campanile e illuminano a giorno la piazza, poi tra sbuffi di fuoco e scoppi si accende la croce in cima al campanile e così, mentre infuria l’incendio, una stella luminosa va a prendere l’immagine della Madonna, che, salendo verso il campanile, doma e spegne le fiamme.
A’ mamma rò carmene ha fatto il miracolo, non è paragonabile a quello di San Gennaro ma la suggestione è ben diversa, si vive la napoletanità, quella verace, quella tramandata, quella che non si improvvisa quella che rende Napoli unica al mondo…
Fonte: Benedetto Croce Storia del Regno di Napoli, wikypedia, Matilde serao Il Ventre di Napoli, Giuseppe Scarica ecampania
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