Napoli: il taglio del monte-ingaggi prepara la cessione o è una rifondazione?

Cessione o rifondazione, la strategia del Napoli di riduzione del monte-ingaggi è come Giano: bifronte. Ristrutturare per rendere più profittevole la vendita, o ristrutturare per attestare il Napoli in una comfort zone che lo metta al riparo dalla necessità dei ricavi Champions. Tagliare gli ingaggi è funzionale a entrambi gli scenari. Perciò si configura come un’opzione tattica attendista che il club ha adottato con convinzione perché adattabile a ogni futura strategia. Non senza però una certa percentuale di imprevedibile azzardo.

La cura dimagrante è già iniziata. Il Napoli aveva nella stagione 2021/22 appena conclusa un monte-ingaggi lordo di 100,84 milioni, secondo i dati della Gazzetta elaborati da Calcio e Finanza. Con le partenze di Manolas prima e poi di Insigne, Ghoulam e Malcuit, il club ha già operato un taglio di 21,83 milioni lordi. Sono chiaramente cifre parziali che vanno compensate con la parte di ingaggio di Anguissa coperta dal Fulham nella scorsa stagione. E gli stipendi di Kvaratskhelia e Olivera, che beneficiano però entrambi del decreto crescita.

Si tratta comunque di un orientamento preciso verso il robusto ridimensionamento annunciato dallo stesso Aurelio De Laurentiis. Potrebbe diventare imponente se a partire fosse anche Kalidou Koulibaly che costa al club 11,1 milioni lordi l’anno. Discorso estendibile a Dries Mertens, che se anche rinnovasse lo farebbe a una cifra inferiore di oltre due terzi agli 8,33 milioni che percepisce attualmente. Gli ingaggi degli eventuali sostituti sarebbero comunque decisamente più contenuti.

Napoli,  il taglio del monte-ingaggi Perché la strategia è bifronte?

La storia industriale offre una ricca testimonianza di processi di ristrutturazione propedeutici alla cessione di aziende. Si tratta di processi che vengono realizzati per due motivi.

Il primo è economico: vendere una azienda con costi di produzione bassi rafforza la capacità di generare margini di profitto più alti e dunque anche il valore ne esce accresciuto.

Il secondo è politico: il lavoro sporco dei tagli viene fatto dal venditore e l’acquirente può invece presentarsi attraverso i nuovi investimenti. Come colui che inverte il processo di tagli e sacrifici. Ma può farlo proprio in virtù del fatto che ha ereditato una azienda risanata dal punto di vista economico e finanziario. Non è un caso che i piani di ristrutturazione sono spesso imposti dagli acquirenti durante la negoziazione.

Senza andare troppo lontano e per restare in ambito calcistico, basti vedere quello che ha fatto il Fondo Elliott con il Milan. Il fondo americano non aveva nessuna intenzione di gestire la società all’infinito. Il suo obiettivo era ristrutturare la società per poi rivenderla realizzando una importante plusvalenza.

Il piano di ristrutturazione ha previsto il risanamento finanziario (riduzione importante dei debiti) riduzione del monte ingaggi e del costo di acquisizione dei cartellini, ampliamento dei ricavi e risanamento economico attraverso un tendenziale riequilibrio tra costi e ricavi.

Il Fondo Elliot ha quindi puntato sui giovani. Ha lasciato partire i giocatori con ingaggio oneroso (vedi Donnarumma). Risanato il club, ampliato l’area dei ricavi e ora lo ha venduto a 1,3 miliardi, avendo speso 700 milioni e realizzando una plusvalenza di 600 milioni di euro in pochi anni. Lo scudetto ha rappresentato la proverbiale ciliegina sulla torta di una strategia sostanzialmente economica.

CESSIONE AD UN FONDO O RIFONDAZIONE?

Il Napoli non ha però bisogno di risanare finanziariamente la società perché ha un indebitamento esterno pari a zero, non intende ampliare l’area dei ricavi perché per farlo bisognerebbe investire e intende perseguire la sua ristrutturazione riducendo gli ingaggi e il costo di acquisizione dei cartellini.

È una strategia che però ha senso solo nel breve periodo, se è finalizzata alla cessione della società, perché massimizza il valore della società presentando un equilibrio economico stabile. Nel lungo periodo invece depaupera il valore della società perché riduce strutturalmente la possibilità di ampliare i ricavi attraverso la crescita del brand e della partecipazione alle competizioni sportive europee.

Dunque, se tutto questo ha senso, la ristrutturazione di ADL dovrebbe essere finalizzata alla cessione. Altrimenti siamo di fronte ad una operazione in cui la società ha rinunciato a massimizzare il valore di lungo periodo del Napoli e di vivacchiare sportivamente. Questa seconda strada è una via verso il ridimensionamento. Significa rinunciare a qualsiasi tipo di investimento che potrebbe rafforzare la capacità di generare ricavi e rinunciare a qualsiasi competizione con le grandi squadre del Nord. Un assetto che condurrebbe la società ad essere l’ultima della fila delle grandi squadre. L’Udinese delle big.

È questo l’azzardo. Con una popolarità mai come stavolta ai minimi termini, con la delusione per il crollo nella corsa scudetto, l’irritazione per le dichiarazioni fiume di Aurelio De Laurentiis da Empoli in avanti, la preoccupazione crescente per la permanenza dei giocatori più esperti, che grado di apprezzamento potrebbe ambire una strategia di questo tipo, se il Napoli arrivasse ottavo o nono, in una Serie A dove hanno fatto irruzione a gamba tesa grandi fondi stranieri?

Dal punto di vista economico-finanziario non sarebbe un dramma, ma i tifosi sarebbero disposti ad accettare un Napoli ridimensionato, dopo un decennio di soggiorno più o meno stabile nelle prime posizioni della classifica e aspirazioni crescenti di scudetto? Credo in assoluta onestà che determinerebbe uno scenario di insostenibile divergenza fra la proprietà e la piazza.

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