Il Napoli si appresta a vincere il suo terzo scudetto della storia e spunta un retroscena sorprendente sulla rottura con il recente passato.
Gli scintillanti fuochi d’artificio dello scudetto azzurro illuminano i cinque continenti, poiché la napoletanità è da sempre la forma di cultura italiana con la maggiore proiezione internazionale. In un’epoca in cui l’identità si fonde con la cittadinanza, il napoletano non è più solo una lingua che racconta un popolo, ma rimane l’espressione più autentica dell’italianità cosmopolita. L’Italia parla al mondo con la voce di Napoli e, in questi giorni, con i divieti dei tifosi di Salernitana, Juventus, Milan, Inter, Varese e Atalanta, sta vivendo un rapporto contro naatura.
Ma cosa racconta questo scudetto del Napoli?
In un certo senso, il terzo scudetto del Napoli rappresenta una rottura rispetto alla crisi cronica della città e al suo mito noir. Il successo dei ragazzi di Spalletti segna una discontinuità con la recente storia di Napoli e la sua attuale marginalità nel Paese. È un’impresa visionaria e razionale, frutto di investimento, sacrificio e organizzazione. Un traguardo in un certo senso antinapoletano, come lo furono il primo e il secondo tricolore, ma in modo diverso.
Maradona riscattava la subalternità di Napoli assediata dalla camorra e funestata dal terremoto, tradita dall’interventismo pubblico fallimentare e dalla crisi della prima repubblica, che coincise con l’eclissi della classe dirigente meridionale.
Osimhen e Kvara non hanno nulla da riscattare, poiché Napoli oggi non è una periferia della nazione, ma un’isola che vive di tempi e attese non più in connessione con il resto del Paese. Il Napoli vincente è la squadra più forte del campionato.
Il successo della napoletanità
Nell’arte popolare e nella comunicazione, Napoli si ripresenta come l’eterna ripetizione di una rivoluzione fallita che diventa mitologia del negativo, per usare una felice metafora di Raffaele La Capria. Gran parte del successo della napoletanità negli ultimi anni è un’immagine sovraesposta degli eccessi e dei difetti di un’identità eletta a simbolo.
Pino Daniele è stato l’ultima fonte di creatività vitale della città. I successivi processi culturali di successo hanno, per così dire, una cifra parassitaria. Si nutrono dell’immagine rovesciata e amplificata della crisi, mostrandola come un feticcio. Napoli è il teatro dove si recita quotidianamente il declino, la frattura, il conflitto e l’agonia di ogni sistema di comunità.
Lo scudetto azzurro è una sorprendente smentita di questa pièce
Innanzitutto, perché è manifattura, nel senso di costruire qualcosa che, mattone dopo mattone, supera le ambizioni di chi ha lavorato all’impresa. Il Napoli vincente è la squadra più forte del campionato, capace di creare il vuoto attorno a sé e, soprattutto, di imparare dalle proprie fragilità e cadute.
Napoli campione, ma non è una rivincita
Questo scudetto non è appeso al gancio di un campione leggendario e insieme periclitante come Maradona. È più solido e più fragile, ma ha l’energia potenziale di un ciclo. Può trasformare la sconfitta in Champions con il Milan nel quid di esperienza necessario per alzare l’asticella delle ambizioni e puntare a un’egemonia europea.
Certo, tutto può rompersi e sfarinarsi nella tempesta, ma la manutenzione dello scudetto richiede una responsabilità ancora maggiore da parte dei suoi artefici: la società, la squadra, il tecnico, i tifosi e tutta la città. Il miglior modo per assolverla è non considerarla una rivincita, né un risarcimento, ma piuttosto l’inizio di qualcosa di assolutamente inedito nel passato prossimo di Napoli, da cui possono sbocciare altre sorprese.