Malafemmena, Totò amò una sola donna. La vera storia di una poesia diventata canzone immortale.
La canzone Malafemmena è del 1951. Sia le parole che la musica sono di Totò, che, badate bene, non sapeva scrivere di musica e non la conosceva, non avendola mai studiata.
Toto’ la scrisse in un momento di sconforto (o di meditata allegria? non lo sapremo mai), nella sua lingua, il napoletano, lingua nella quale compose una infinità di poesie molte delle quali d’amore. In napoletano malafemmena sta indicare una donna di malaffare. Totò però lo usa in senso diverso, e le da un significato particolare, quello più morbido e più appropriato al suo caso di “donna che fa soffrire”, una femmina che fa soffrire le pene d’amore a chi la ama.
“Stavo a Formia, per girare un film… (era il mese di aprile del 1951, il film era: Totò terzo uomo, per la regia di Mario Mattoli)
…e mi vennero spontanee queste prima parole, femmena, tu si’ ‘na malafemmena… erano belle, dense di significato,. mi piacquero e le scrissi sul retro di un pacchetto si sigarette (un pacchetto di Turmac), ma poi accartocciai l’involucro per gettarlo, e con esso gettai involontariamente anche quel mio principio di canzone.
Ma i versi mi giravano sempre in testa; tanto che ci fischiettai sopra una musica, semplice, leggera, Ci stava proprio bene. Quando uscimmo dal set tornando all’albero le feci sentire al mio autista (il signor Salvatore Cafiero) che si schifò, mi disse che “… è ‘na lagna, dotto’…”.
E tu si’ ‘nu fesso, e nun capisce proprio niente!. Tie’…Continuai a fischiettare e a comporre mentalmente. <Una volta tornato a casa a Roma, poi, mi accomodai al pianoforte con un dito solo, seguendo il fischio cercai le note relative, e piano piano nacque la musica. Alla quale aggiunsi le parole che già tenevo, poi le completai con altre, che vennero spontaneamente a galla dal fondo dell’anima mia.
Posso dire che nacquero insieme, parole e musica, le une a complemento dell’altra; e viceversa. Forse sono ‘nu poco tristi, ‘sti pparole, ma che cci vuo’ fa’. io sono un attore comico, ma nella vita sono triste, sono un funerale di I classe”.
Malafemmena
A lungo era diffusa la credenza che Malafemmena fosse stata scritta per l’attrice Silvana Pampanini, conosciuta su set di 47 morto che parla, la quale aveva rifiutato la sua offerta di matrimonio.
Liliana de Curtis ha affermato che la canzone fu scritta in realtà per la madre, Diana Bandini Lucchesini Rogliani, moglie di Totò, come risulta anche dalla dedica acclusa al testo della canzone depositato dall’autore presso la SIAE: A Diana.
Il grande Toto’ ebbe una vita sentimentale tumultuosa, ma amò veramente solamente una donna: sua moglie Diana Bandini Rogliani, madre della sua unica figlia, Liliana, che in questa intervista con la giornalista Maria Grazia d’Errico ci racconta il grande amore dei genitori, intenso e passionale.
Totò dedicò proprio a Diana la canzone ‘Malafemmena’, uno dei brani più struggenti di tutta la storia della musica italiana.
Signora Liliana De Curtis, come è nata l’idea di scrivere un libro su sua madre?
“Se n’è parlato molto in questi anni: mia figlia Diana desiderava rendere omaggio alla nonna scomparsa due anni fa perché, in definitiva, a mia madre toccò il destino di restare nell’ombra di quel grande protagonista che è stato mio padre.
Se n’è andata in silenzio, così com’era vissuta, lasciando nel mistero il suo ruolo nella vita di Totò e non ha mai desiderato farsi pubblicità.
Tutti pensano che la canzone ‘Malafemmena’ sia dedicata a Silvana Pampanini, l’attrice di cui Totò s’era invaghito anche se respinto dalla stessa.
Ma fu proprio mio padre a smentire questa diceria: quando depositò i diritti alla Siae, comparve infatti la dedica ‘a Diana, la mia Mizuzzina’…”.
La storia di un grande amore
“Sì, è il romanzo appassionante di un grandissimo amore. Il loro legame è un esempio di ‘amour fou’, in cui gli amanti non possono vivere né insieme, né divisi.
Quando si conobbero, a Firenze, durante uno spettacolo, lui aveva più di 30 anni ed era già un attore abbastanza noto, mentre Diana, appena quindicenne, viveva in un collegio di suore. Scappò per amor suo e, inizialmente, visse con lui in albergo.
Egli la forgiò a sua immagine, vivendo un rapporto di grande attrazione fisica, complicità e tenerezza, ma anche piuttosto conflittuale: erano amanti, fratello e sorella, madre e figlio.
Con lei, Totò sentiva di potersi aprire completamente.
E mia madre era felicissima solo quando veniva chiamata la ‘signora Totò e non la ‘principessa’ de Curtis”.
Un amore, però, avvelenato dalla morbosa gelosia di suo padre…
“Sì, Diana percepì subito quello che sarebbe diventato il ‘veleno’ della loro unione: la gelosia ossessiva di Totò. Lui prese l’abitudine di chiuderla in camerino, mentre recitava, roso dai sospetti, “perché”, diceva, “ci si può sentire traditi anche soltanto con gli occhi”.
Una sera, durante uno spettacolo, smise di recitare e scese in sala urlando ad un corteggiatore indiscreto che stava fissando Diana, dicendogli davanti a tutti: “Violare la proprietà privata è un reato punito dalla legge”!
Quando Diana rimase incinta, lui dubitò persino di essere il padre. Da giovane aveva contratto una forma di otite ed era convinto di essere sterile.
La gelosia ha sempre gettato un’ombra sul loro rapporto, anche se ciò non ha impedito loro di essere felici, soprattutto quando la passione si stemperava nella tenerezza, come accadde durante il loro primo Natale, in cui lei gli preparò un presepe e lui, commosso per non averne mai avuto uno prima, si definì “un bambino felice”.
La loro vita coniugale fu sempre alternata da furibonde litigate e tenere riappacificazioni, periodi di intesa e passione e ‘scappatelle’ sopportate dolorosamente da mia madre.
Nel timore di essere tradito, nel 1939 Totò chiese e ottenne il divorzio in Bulgaria, facendolo poi deliberare in Italia – un espediente giuridico assai costoso che veniva adottato, a quei tempi, solo da qualche celebrità – pur continuando a vivere con la moglie: era il suo modo ‘folle’ per esorcizzare l’incubo delle ‘corna’.
“Per ritrovare l’amore”, le disse un giorno, “voglio tornare celibe e scoprire il gusto di averti al di fuori di ogni vincolo ufficiale”. Una situazione distruttiva, per entrambi, costellata di crudeltà e di cattiverie inflitte alla moglie e destinata necessariamente a concludersi con un addio.
Ma nel cuore rimasero sempre uniti. Diana si risposò con l’avvocato Michele Tufaroli e fu sempre infelice. Totò sprofondò nello sconforto assoluto e le dedicò anche un’altra canzone, ‘Nemica’, sul tema dell’amore – odio.
Si concesse numerosi fidanzamenti e, alla fine, decise di voltare pagina quando conobbe Franca Faldini, la donna con la quale si fidanzò ufficialmente convocando una conferenza stampa, al fine di confermare l’importanza di un legame destinato a durare diciotto anni”.
Suo padre incarnava il classico ‘cliché’ dell’attore tutto ‘genio e sregolatezza’, ma una volta tolta la maschera e il pesante cerone che tipo di uomo diventava?
“Un uomo malinconico: oltre gli applausi, ogni sera c’era per lui il timore di non riuscire più a divertire la gente, il dubbio di aver sbagliato tono, la consapevolezza del lato effimero del suo mestiere.
“Il falegname costruisce qualcosa di concreto, ma noi attori lavoriamo sulle chiacchiere e finiremo dimenticati”. Era umile e insicuro e non aveva l’animo disposto ad acquisire certezze.
A questo clima, in cui la fatica di recitare, spesso davanti a un pubblico feroce pronto a demolire il comico se non era capace di farlo ridere, si univano le difficoltà economiche.
E il sesso rappresentava l’unico modo per rilassarsi. Le donne gli piacevano immensamente, soprattutto per quel lato misterioso della loro personalità che lo intrigava nel momento in cui si rivelavano diverse da come apparivano.
Come quando concupì una bella vedova durante la veglia funebre del marito, etichettandola: “Il veglione funebre, tanto il defunto non sentiva e non vedeva…”. Ma in realtà aveva un mucchio di ‘fantasie’ anche a livello platonico.
Per esempio, ricordava con emozione l’incontro con una ‘modista’ che, solamente per una sera, egli trasformò in una ‘principessa’ senza osare nemmeno sfiorarla. Era un tipo esigente: per lui la sensualità doveva fondersi con un’altissima moralità, secondo un ‘prototipo’ vagheggiato dagli uomini della sua generazione”.
Di tutte queste signore, dette le ‘passanti’, Totò però ne ricordava una…
“Sì. Esitava a pronunciarne persino il nome: Liliana Castagnola, una donna fragile, vittima della sua stessa bellezza, una ‘sciantosa’ celebre per aver portato alla disperazione una serie di amanti e per aver dilapidato parecchi patrimoni.
Si era lasciata ‘usare’ dagli uomini e anche da Totò. Pretendeva che la sposasse, ma lui non poté darle il suo cognome proprio a causa del ‘passato’ di lei.
Per Totò si trasformò in una docile fanciulla innamorata e, quando lui la lasciò sola, ella non resse all’abbandono e si avvelenò.
Oppresso dal senso di colpa, lui affermò, più tardi, che meritava di diventare sua moglie, perché lei lo amava veramente, poiché il suo animo era rimasto puro mentre, all’epoca, lui non lo capì.
Liliana fu innalzata dal ruolo di cortigiana a quello di eroina romantica e finì nel ‘ricordatoio’, come lui definiva quella zona del suo cuore in cui sopravvivevano poche, ma intense, emozioni. Volle che le sue spoglie riposassero nella cappella di famiglia, dove sono ancora oggi.
E a me diede il suo nome, Liliana. Nella sfortunata donna, Diana vide un riflesso di se stessa, che tante volte aveva pianto per Totò ma con il fermo proposito di non lasciarsi mai sopraffare da una passione così distruttiva”.
Da dove nasceva questa precarietà, questa insicurezza, che ha accompagnato Totò fino alla fine della sua vita?
“Quando Diana gli chiese perché avesse paura del matrimonio, lui le parlò apertamente della sua infanzia infelice, confidandole la vergogna provata per essere un “figlio di padre ignoto”, all’epoca un destino veramente infame.
Fu lui, diventato adulto, ad imporre le nozze ai propri genitori, ottenendo così il cognome del padre nobile. Nonostante ciò, egli non riuscì mai a dimenticare le umiliazioni subite per la mancanza di una vera famiglia.
Nel 1933, il marchese Francesco Maria Gagliardi Focas lo aveva adottato, dandogli quindi il suo vero nome, in cambio di un vitalizio.
Alla morte di questi si fregiò dei titoli araldici tanto sospirati: una conquista che arrivò solamente dopo una lunga battaglia giudiziaria, durata parecchi anni e portata avanti con caparbietà.
Chiedeva alla moglie di sopportare tutto ciò, perché talvolta lui stesso non si riconosceva. E lei sentiva di essere accomunata a suo marito da un destino analogo, perché lei stessa era nata da una relazione che sua madre aveva avuto con un uomo già sposato: Ferdinando Lucchessini”.
In che contesto nacque ‘Malafemmena’?
“Dopo il corteggiamento pubblico di Totò a Silvana Pampanini, sua partner nel film ‘47 morto che parla’, Diana, esasperata per i presunti tradimenti, decise di risposarsi.
Totò allora iniziò a tormentarsi in balia dei rimorsi, di rimpianti e anche di un’aspra voglia di vendetta, perché secondo lui l’unica responsabile della fine del loro matrimonio era la moglie, colpevole di aver sopravvalutato le sue ‘scappatelle’.
Silvana Pampanini non aveva mai preso in considerazione l’idea di sposarlo. E Diana, minacciando di unirsi a un altro uomo, gli si era rivoltata contro “come un serpente”, lasciandolo solo.
L’unico conforto era la musica. E fu così che compose quella meravigliosa e romantica melodia. Il titolo del brano, ‘Malafemmena’, non sottintende un significato moralmente dispregiativo: nella cultura partenopea, il termine viene riferito nei confronti di quelle donne con un carattere combattivo, fortemente passionali.
In seguito, Silvana Pampanini, in buona fede, si prese la ‘gloria’ di aver ispirato la canzone, togliendo a Diana quest’ultima soddisfazione. Ma le cose, non stavano esattamente così…”.
Alla luce di questa verità, lei ritiene che sua madre venga ‘riscattata’ da questo libro?
“Mia madre è rimasta l’unica e la sola moglie di Totò. Lui, in un estremo atto di generosità e sentendosi in debito con lei, le regalò una bellissima casa proprio con i proventi dei diritti d’autore di ‘Malafemmena’, a lei dedicata.
E’ stata presente ai suoi funerali in veste di moglie ufficiale. E Franca Faldini, considerata ‘pubblica concubina’, fu invitata dal prete a uscire di casa come condizione essenziale per la benedizione della salma.
Quella era la ‘morale’ dell’epoca: la donna che aveva condiviso con Antonio de Curtis gli ultimi diciotto anni di vita venne estromessa nell’ora estrema, poiché quel ‘ruolo’ spettava a Diana, che lo riprese con umiltà.
Anche nella morte mio padre fu ‘eccessivo’: ebbe tre funerali e sulla bara pretese la ‘bombetta’ con cui aveva esordito e un garofano rosso.
Di fronte alla commozione di una Napoli in lutto che applaudiva il suo ‘re’, mia madre si sentì fiera di essere stata amata da un uomo capace di suscitare tanto amore e lo rimpianse fino alla fine dei suoi giorni.
Ma l’idea della morte sfiorava Diana senza dolore, poiché pensava che, in un’altra vita, avrebbe rivisto il marito lontana dai tormenti che li avevano divisi: sognava di ricongiungersi con lui e sperava che al suo funerale venisse suonata proprio ‘Malafemmena’…”.
Fonte: Liliana de Curtis :‘Malafemmena’-Mondadori- Maria Grazia d’Errico laici.it, marcello de santis-technologeek.
Foto: Antonio De Curtis.com
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