La ricerca del sacro Graal porta a Napoli, al Maschio Angioino. Al solstizio d’estate, in una sala appare un “volume” luminoso. Nel castello ci sono richiami ai cavalieri della Tavola Rotonda e alla loro caccia della coppa.
Di: Maria Leonarda Leone
La rivista Focus svela un particolare retroscena che riguarda il mitico calice e la città di Napoli:
La ricerca del sacro Graal porta a Napoli
Tutti stregati dal mitico Graal: per la tradizione più popolare è il calice usato da Gesù nell’Ultima Cena, per altri racconti una pietra caduta dal cielo, e in diverse versioni è un oggetto dai poteri miracolosi, capace di dispensare potere e vita eterna. Ma ora c’è una novità. Le tracce del Graal portano fino a Napoli: al Maschio Angioino, in cui sono stati identificati complessi simboli legati alla mitica coppa e un misterioso “libro di luce” – notato solo di recente – che appare su una parete della antica sala del trono. Un vero e proprio messaggio cifrato lasciato da un sovrano spagnolo, arrivato in Italia da conquistatore nel XV secolo, convinto di essere il legittimo possessore del Graal…
DALLA SPAGNA.
Il re in questione è Alfonso V di Aragona (un regno nel Nordest della Spagna), conquistatore di Napoli nel 1442, ovvero il protagonista della nostra storia. Alfonso avrebbe deciso di dedicare al Graal il Maschio Angioino (o Castel Nuovo): la fortezza – voluta nel Duecento da Carlo I d’Angiò – che ricostruì dopo la conquista della città. Infatti, nel castello, lo studioso di simbologia ed esoterismo Salvatore Forte ha identificato diversi elementi che richiamerebbero il legame particolare del mitico calice con il sovrano spagnolo.
Forte, presidente dell’Associazione Ivi, che si è occupata del progetto “Il Graal al Maschio Angioino”, in collaborazione con il Comune di Napoli, con l’Associazione Timeline Napoli e con gli speleologi di HyppoKampos Adventure, segnala infatti una serie di simboli legati al calice: un trono in fiamme, una giara-coppa e un libro disegnato dalla luce del sole in quella che era la sala del trono di re Alfonso, fenomeno che nessuno aveva finora descritto.
Per capire meglio questi simboli, dobbiamo fare un passo indietro: alla leggenda del Graal. La sua storia venne messa per iscritto per la prima volta alla fine del XII secolo nel poema Le Roman de Perceval ou le conte du Graal, di Chrétien de Troyes, ma non aveva niente a che vedere con Cristo: era solo un “graal”, cioè il nome comune che in francese antico indicava la ciotola in cui si servivano le vivande. Soltanto qualche anno dopo, in un poema di Robert de Boron, diventò il “Sacro Graal”, il calice dell’Ultima Cena usato da San Giuseppe d’Arimatea per raccogliere il sangue di Gesù crocifisso.
Nel castello ci sono richiami ai cavalieri della Tavola Rotonda
Re Alfonso era un uomo di cultura, amante dei classici e dei poemi cavallereschi. Certo conosceva la leggenda del Graal nella versione del Lancillotto in prosa, un ciclo di romanzi in francese antico, scritti da autori anonimi nel XIII secolo.
Vi si raccontava che Galahad, figlio di Lancillotto, fosse l’unico cavaliere così puro da poter occupare, senza esserne ucciso, il “seggio periglioso”, il tredicesimo trono della Tavola Rotonda di re Artù, destinato al solo degno di ritrovare la sacra coppa. Cosa che in effetti, secondo la leggenda, riuscì a fare. «Il sovrano spagnolo si sentiva un novello Galahad e volle ricreare nella fortezza una simbolica analogia fra il cavaliere e se stesso, celebrando il diritto di governare il Regno di Napoli come Galahad aveva acquistato il diritto di sedersi sulla tredicesima sedia alla corte di re Artù», sostiene Forte.
E infatti il “seggio periglioso”, rappresentato come un trono con al centro una fiamma, è raffigurato nelle insegne del sovrano, sulle volte, sui pavimenti e nell’arco trionfale all’ingresso del Maschio Angioino. A Napoli, Alfonso indossò anche un’armatura decorata con tale simbolo-talismano. Senza contare che alla base del Balcone del Trionfo, da cui il sovrano si affacciava sul cortile del castello, è scolpita una giara, l’emblema dell’Ordine della Giara, fondato dal padre di Alfonso, Ferdinando “il Giusto”: era sì una delle onorificenze più importanti del regno, ma anche una coppa. Che Forte ipotizza potesse rappresentare appunto il Graal. Preziose reliquie e presunti nascondigli.
Al Maschio Angioino. Al solstizio d’estate appare…
Ma c’è un’altra misteriosa immagine che compare nel portale d’ingresso del castello e nei ritratti di Alfonso: un libro aperto, colpito dai raggi del sole. Qual è il suo significato? Un richiamo agli studi letterari e filosofici della corte aragonese, certo. Ma non solo. «Esotericamente il libro aperto può rappresentare la conoscenza rivelata», spiega Forte. «Non può essere un caso, quindi, il fenomeno che abbiamo osservato durante il solstizio d’estate nella Sala dei Baroni, l’antica sala del trono».
Nel periodo delle giornate più lunghe dell’anno, i raggi del sole penetrano dal finestrone più grande della stanza, sul lato ovest del cortile: la luce crea sul muro opposto una sagoma ben definita, che ricorda la forma di un libro aperto (v. sequenza nelle prossime pagine) e “sale” fino al centro della parete. «Le misure di questo libro di luce sono particolari: rappresentano 1/16 della misura della Sala, che è un cubo con i lati di 26 metri. Se dividiamo questa misura per 16, il risultato è 1,6: è il numero aureo, una proporzione su cui si basano molte forme della natura», prosegue Forte. Un numero che ha affascinato filosofi e artisti, che lo hanno riprodotto come ideale di bellezza e perfezione.
Ma bastano queste considerazioni e questa simbologia a gemellare il Maschio Angioino di Napoli con il calice di Cristo? Che cosa c’entra quindi il Maschio Angioino?
C’entra, perché Salvatore Forte, nelle sue ricerche, ha notato l’indizio di cui si parlava prima: «Il soffitto della Sala dei Baroni è pressoché identico a quello della cappella spagnola del Santo Calice». Il “Graal di Valencia” era infatti stato donato nel 1399 dai monaci del monastero di San Juan de la Peña alla corona di Aragona e quindi era arrivato ad Alfonso. «A decidere la destinazione finale di un oggetto così pregiato fu proprio il re.
Nel 1424 lo portò con sé al palazzo reale di Valencia e soltanto alcuni anni più tardi, nel 1437, lo donò alla cattedrale di questa città», ha scritto lo storico Joan Molina Figueras, dell’Università di Girona. «Ora possiamo completare il significato esoterico del castello napoletano», racconta Forte.
«Attraverso la prova del Libro fiammeggiante, che gli rivela le leggi dell’universo, il re può sedersi sul “seggio periglioso” ed essere il cavaliere del Graal. Ora che ha conquistato la coppa, è degno di affacciarsi al Balcone del Trionfo (quello con sotto la giara), la cui forma, un mezzo esagono, ricorda il sigillo di Salomone: la stella a sei punte, formata da due triangoli intrecciati, che rappresenta l’equilibrio tra materia e spirito. E quale novello Galahad può riversare sapienza e forza nel mondo», conclude Forte.
Dall’Ultima Cena ai cavalieri di re Artù, ancora oggi la storia continua ad affascinarci. I cavalieri medioevali non ne sarebbero stupiti: sapevano bene che la ricerca del Graal non ha mai fine…